IL TEATRO DELLE MARIONETTE
di Anna Lavatelli
(da "Popotus", 25 luglio 2009, anno XIV, n. 1271)
Dovetti aspettare un po’, perché non era facile da trovare. Ma alla
fine, per il mio decimo compleanno mio padre riuscì a procurarmi
quel teatrino delle marionette che desideravo da tempo. Me lo ricordo
ancora, quanto era bello. Tutto di legno e si poteva montare e smontare
a piacimento, senza molte difficoltà.
C’era
una base che fungeva da palcoscenico, un elemento frontale di colore
rosso con decorazioni dorate – come nei teatri veri –
quattro quinte laterali ed un fondale, per cambiare la scenografia.
C’era persino un sipario di velluto che si poteva aprire e chiudere
tirando una cordicella.
Con gli accessori, si potevano creare due ambienti differenti: l’interno
di un grande castello, ovvero un salone elegante per le feste, e
l’esterno del castello stesso, con la facciata in stile francese e un
grande parco tutto intorno. Come corredo indispensabile, cinque
burattini sostenuti dal filo: un re, una principessa, un maggiordomo, un
principe e una strega.
Il primo giorno ci giocò soprattutto mio padre, per farmi vedere –
così disse lui – come funzionava. In realtà credo si divertisse alla
grande, anche se non voleva ammetterlo. Ma dal giorno successivo il
teatrino diventò interamente mio.
Cominciai a realizzare delle scenette buffe per mio fratello
Paolo. Ma un pubblico così ristretto non mi bastava di certo. Si è mai
visto infatti uno spettacolo con un solo spettatore? Così cominciai ad
invitare amiche ed amici, che poi erano i bambini di via Adua, con i
quali giocavo tutti i giorni sulla strada, quando la stagione lo
permetteva.
Mettevo il teatrino sullo scivolo del garage, davanti al portone,
appoggiandolo su di una cassetta della frutta. Lo scivolo fungeva da
platea e la pendenza assicurava a tutti una buona visione, proprio come
nei teatri veri. Le rappresentazioni avevano un successo incredibile: i
miei amici volevano uno spettacolo tutti i giorni e guai se non li
accontentavo.
Poi una volta capitò un incidente. Volli lavare le marionette, che
per l’uso erano diventate alquanto sporche. Presi un secchiello pieno
d’acqua e le tuffai dentro tutte e cinque. Disastro! I miei preziosi
personaggi erano di gesso e si sciolsero in una pappina biancastra.
Rimasero solo i loro abiti a galleggiare tristemente, anch’essi ormai
irrecuperabili.
Sul momento mi misi a piangere. Ma non per molto. Era vero o no che
quelle cinque marionette, sempre uguali a se stesse, stavano
incominciando a stufarmi? Che avevo bisogno di altri personaggi per
raccontare storie un po’ differenti? E anche di fondali nuovi, che non
fossero il solito salone e il solito parco, ormai triti e ritriti?
Detto fatto, mi misi prontamente al lavoro. E con legnetti, turaccioli,
palline da ping-pong, sagome di stoffa imbottite di bambagia cominciai a
costruire una quantità di marionette, a vestirle con gli avanzi
delle stoffe che mia madre teneva da parte. E su cartoncini robusti
iniziai a disegnare nuovi sfondi: boschi incantati, grotte misteriose,
oceani in tempesta, villaggi di campagna, montagne coperte di neve,
deserti spaventosi… Non era un lavoro, per me. Era un gran divertimento.
Ricominciarono così le rappresentazioni sullo scivolo del mio garage.
Adesso non c’era più un solo eroe, il solito noioso principe azzurro, ma
una schiera di personaggi coraggiosissimi – uomini o donne che fossero –
i quali affrontavano le imprese più incredibili.
Per
farmi venire altre idee, leggevo molto. E siccome allora mi piacevano
soprattutto i racconti epici, le storie magiche e l’avventura,
facevo un gran minestrone di tutto, mettendo insieme mago Merlino e
l’Orco delle Sette Teste, Ivanoe e Robin Hood, re Artù e l’Orlando
Furioso, la strega del bosco e la maga Circe, la bellissima Budur
e la combattiva Bradamante.
Fu un successo ancora più clamoroso. Stuzzicata dall’entusiasmo del mio
pubblico, mi lanciai… negli effetti speciali. Costruii un drago di
cartone che poteva muovere le ali. E una barca che dondolava sulle onde
(finte) del mare. Ma la trovata a mio giudizio più geniale era il cambio
improvviso di scena. Il pubblico vedeva ad esempio una roccia nel mezzo
di un bosco. Arrivava l’eroe di turno, si avvicinava senza sospetto. In
quel preciso momento… zac! Toglievo via il fondale. E dietro…
sorpresa! … c’era un altro disegno, che rappresentava l’interno: una
grotta piena di scheletri, di ragnatele e di altre cose terrificanti.
Bellissimo.
Poi iniziai la scuola media. E in quell’età di passaggio in cui ci si
vergogna di essere stati bambini, smisi di giocare con il mio
teatrino. Che finì in cantina e dopo un po’ venne bruciato nel camino.
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