Tutte le notti Lucia si
svegliava chiamando la mamma. Aveva solo tre anni, non capiva che la
mamma non sarebbe più tornata. Clara invece di anni ne aveva sette e
conosceva la verità.
Due mesi prima, mentre guardava un cartone animato alla televisione con
la sorellina, aveva sentito squillare il telefono. Aveva visto la nonna
rispondere, mettersi una mano sulla bocca e sedersi pesantemente su una
sedia. Aveva la faccia sgomenta e gli occhi rivolti al pavimento. Le era
andata vicina, ma lei non riusciva a guardarla. Aveva visto anche tutte
quelle persone vestite di nero che giravano per casa e la fissavano in
modo strano.
Una vecchia, dopo essersi presentata come la prozia Lina (ma cos’era
esattamente una prozia?), le aveva carezzato i capelli chiamandola
“povera bambina”. Clara non riusciva a capire: non era affatto povera,
aveva tanti giocattoli, una casa grande e persino un cincillà. Aveva
chiesto spiegazioni, ma quella signora si era messa a piangere. Era
stato allora che la nonna aveva fatto sedere lei e Lucia sul divano e
aveva detto loro che la mamma era andata in cielo.
Lucia aveva chiesto “E quando torna?”, ma la nonna non era riuscita a
rispondere, l’aveva presa in braccio e abbracciata stretta, finché la
piccola non si era divincolata per correre a giocare nella sua stanza.
Clara l’aveva seguita mestamente: lei sapeva che, quando si va in cielo,
non si torna più.
Era stata proprio la mamma a spiegarglielo l’anno precedente, quando il
micio di casa, Romeo, era stato investito dal vicino che entrava con
l’auto in cortile. Clara adorava Romeo, era lei che gli dava da mangiare
e lo spazzolava, la mamma gliel’aveva comprato solo a condizione che se
ne occupasse personalmente (in quell’occasione, la bambina aveva
imparato una parola nuova, “responsabilizzare”, ma era troppo lunga e
difficile, e non l’aveva mai più usata). Quando il vicino si era
presentato da loro con un fagotto in braccio, scusandosi ripetutamente,
dicendo che proprio non l’aveva visto, Clara aveva iniziato a piangere
disperatamente e non aveva smesso per ore.
Allora la mamma si era seduta accanto a lei sul letto e le aveva
spiegato che in cielo c’era un angolino anche per i gatti e che di
sicuro Romeo sarebbe stato bene e avrebbe avuto topini di gomma da
rincorrere e latte e croccantini a volontà. Lei però era inconsolabile:
non le andava bene che il suo micino stesse in cielo, lo voleva avere di
nuovo con sé.
La mamma le aveva sorriso, carezzandole i capelli: “Questo non è
possibile,” le aveva detto “una volta che sei andato in cielo non puoi
più tornare. È come se il tuo corpo si fosse spento: non esiste un modo
per riaccenderlo”.
“E allora non lo vedrò mai più?”, aveva chiesto tra i singhiozzi Clara.
Ma la mamma, con quella voce dolce che usava di solito per consolarla,
l’aveva rassicurata: “Ma certo che lo vedrai ancora: tutte le volte che
per la strada vedrai un gattino che gli assomiglia, nero come lui, con i
suoi stessi occhietti vispi, saprai che lui dal cielo ti sta mandando un
messaggio.”
“Un messaggio per dirmi cosa?”
“Che ti vuole ancora bene, che si ricorda di te e che gli manchi”.
Clara si era fatta pensosa: “E quando vanno in cielo le persone cosa
succede? Anche loro mandano messaggi?”.
“Io credo di sì, tesoro mio.”
“E come fanno?” “Dipende… Chi sale in cielo non si dimentica mai di chi
è rimasto sulla terra. Ognuno ha un proprio linguaggio, un proprio modo
di apparire, un segno per farsi riconoscere.”
“Sì, ma quelli che rimangono giù come fanno a sapere qual è il segno per
loro? Cosa succede se si distraggono e non lo vedono?”
“L’amore ha mille occhi e mille orecchie, Lala. E tanta pazienza.
Quando, un giorno, andrò in cielo anch’io...”
“No, mamma, tu non andrai mai in cielo!”
“Non subito, tesoro, non presto, ma un giorno, quanto tu e la tua
sorellina sarete abbastanza grandi per cavarvela da sole e io sarò una
vecchietta senza denti…”
“Come la nonna?”
“Ancora più vecchia della nonna! Quando sarò vecchissima, così vecchia
che non potrò mangiare che semolino con la cannuccia…” – rideva la
piccola Clara, non sospettava che di lì a un anno questa conversazione
sarebbe diventata all’improvviso tanto importante – “… quel giorno io me
ne andrò in cielo e da lì inizierò a vegliare sulle mie due bellissime
figlie e manderò loro messaggi pieni di tutto il mio amore e, se la
prima volta saranno distratte, continuerò a mandargliene finché non se
ne accorgeranno!”
“E che forma avranno i tuoi messaggi?”.
La mamma era rimasta in silenzio, assorta, poi a un tratto si era
illuminata: “Una farfallina bianca! Di quelle piccole, che in primavera
volano sui prati. Ogni volta che ne vedrete una, sarà il mio messaggio
d’amore per voi”.
Quella sera, Clara si era addormentata pensando al suo Romeo e alle
farfalline primaverili. Lucia all’epoca era troppo piccola, non aveva
mai sentito questa storia e adesso, ogni notte, piangeva e chiamava la
mamma. Clara si infilava nel suo letto e le sfiorava piano la fronte
finché non si riaddormentava, come per scacciare con una carezza tutti i
suoi incubi.
Al mattino, mentre si adoperava per farle due codini perfettamente
simmetrici, le raccontava storielle divertenti per distrarla, ma la
piccola chiedeva ripetutamente quando sarebbe tornata la mamma.
Clara non capiva perché la nonna non le potesse dire la verità. A scuola
la maestra ribadiva spesso l’importanza della sincerità e la nonna
stessa in passato aveva sentenziato che le bugie hanno le gambe corte
(cosa poi questo volesse dire, Clara non l’aveva mai capito del tutto.
D’altro canto, non aveva mai capito neppure perché non si dovesse
guardare in bocca al cavallo Donato. Come se a qualcuno fosse mai venuta
voglia di guardare in bocca a un cavallo, poi!). Eppure adesso proprio
lei continuava a raccontare alle nipoti di un lungo viaggio nei cieli.
In questo modo non faceva che confondere Lucia, che inizialmente si
illuminava e iniziava a cinguettare ogni volta che vedeva passare un
aeroplano, e poi si era convinta che la mamma stesse facendo un tour nei
cieli sulla slitta di Babbo Natale.
Clara non diceva niente, perché Lucia era una bimba vivace, solare, già
chiacchierona, e lei non aveva voglia di vederla cupa e triste. Così i
giorni passavano, il “viaggio” della mamma si prolungava sempre più e il
Natale si avvicinava.
E Clara era sempre più arrabbiata. Non avrebbe saputo spiegare il
motivo, ma tutto la innervosiva, tutto la faceva scattare. Rispondeva
male alla nonna, aveva smesso di fare i codini a Lucia e spesso la
trattava male, facendola piangere. Sentiva di odiarla un pochino, perché
viveva serenamente, aspettando il ritorno della mamma che invece non
sarebbe tornata più, e nel frattempo era tutta impegnata con i suoi
stupidi giochi e i suoi stupidi cartoni animati. Quanto a lei, da quel
giorno di due mesi prima non guardava più la televisione: nella sua
mente, quella scatola non conteneva più soltanto immagini, ma anche
squilli del telefono, brutte notizie e vecchie che piangono. E bambine
che rimangono sole. Sì, la odiava, odiava la televisione, molto più di
sua sorella Lucia. Ed era arrabbiata anche con la nonna, che le invitava
a scrivere una letterina a Babbo Natale come se Babbo Natale potesse
davvero renderle felici con qualche regalo. Quello che voleva Clara,
Babbo Natale non glielo poteva dare. Rivoleva la sua mamma. Anche se era
un po’ arrabbiata anche con lei: cosa le era saltato in mente di
andarsene in cielo? Le aveva assicurato che ci sarebbe andata quando lei
e Lucia fossero state grandi e in grado di cavarsela da sole, ma loro
erano ancora piccole, avevano ancora bisogno della mamma, e invece lei
era partita lo stesso.
E che dire poi dei messaggi? Aveva promesso di mandare mille messaggi
pieni d’amore e per due mesi Clara era stata sempre attentissima.
Passava ore alla finestra, fissando il cortile, e quando andava a scuola
si guardava intorno costantemente, per essere sicura di non perdersi il
segno che le avrebbe di certo mandato la mamma. E invece niente: non uno
straccio di farfallina bianca. D’altra parte era inverno, persino lei
sapeva che le farfalle d’inverno non ci sono. Allora la mamma le aveva
mentito e lei questo non poteva accettarlo né perdonarlo.
La rabbia le cresceva dentro, si accumulava, spesso era tanto intensa
che la bambina doveva prendere un cuscino e sbatterlo con forza sul
letto, più e più volte, finché non si sentiva stanca e svuotata. E poi
un giorno, il venti di dicembre, non era riuscita a trattenersi ed era
esplosa. Lucia aveva chiesto alla nonna se la mamma sarebbe tornata per
Natale, e lei le aveva gridato contro che era una stupida, che la mamma
non sarebbe tornata mai più, che era morta e basta. Per un attimo, il
tempo si era fermato. Come se tutto scorresse al rallentatore, Clara
aveva visto lo sguardo sconvolto della nonna, la smorfia sulla bocca di
Lucia, aveva sentito la voce della televisione accesa rombarle nelle
orecchie, distorta e grottesca. Poi tutto si era rimesso in movimento
velocemente, la nonna si era avventata su di lei e le aveva dato uno
schiaffo, di quelli duri, con lo schiocco, che ti fanno bruciare le
guance, mentre Lucia aveva iniziato a urlare a squarciagola. Clara era
corsa in camera sua sbattendo la porta, si era gettata sul letto e
tirata il piumino fin sopra alla testa.
All’improvviso, la rabbia era passata. Si sentiva solo infelice e in
colpa. Lucia era così piccola, come aveva potuto dirle una cosa del
genere, e in un modo simile, poi? La mamma le diceva sempre che doveva
essere buona con Lucia, che, in quanto sorella maggiore, avrebbe dovuto
sempre proteggerla e darle il buon esempio. E invece… bell’esempio le
aveva dato. Ma anche lei, Clara, aveva solo sette anni, anche lei era
rimasta sola, anche lei avrebbe desiderato più di ogni altra cosa al
mondo che la mamma tornasse a casa per Natale. O che almeno le mandasse
uno di quei messaggi che le aveva promesso, per farle capire che anche
se non era lì con loro non si era dimenticata delle sue bambine e
continuava a guardarle dal cielo.
Sotto le coperte, Clara piangeva in silenzio, soffocando i singhiozzi
nel cuscino. In quel momento, aveva sentito una vocina flebile: “Lala?”.
Lucia si era avvicinata al letto e cercava di infilarsi sotto le coperte
per raggiungerla. Clara, asciugandosi gli occhi e il naso con la manica,
aveva sollevato il piumino quel tanto che bastava per farla passare,
dopodiché l’aveva calato nuovamente sulle loro teste. Stringendosi alla
sorella in quel piccolo nido buio e caldo, la bambina per la prima volta
da mesi si sentiva meno sola, meno abbandonata. Qualcosa le era rimasto,
in fondo. A Lucia che le chiedeva con voce tremante se era vero che la
mamma era andata via per sempre, Clara aveva raccontato la storia delle
farfalline bianche. “Ma dove sono?” voleva sapere la piccola.
“Non lo so, ma arriveranno” aveva risposto Clara, per la prima volta
fiduciosa. E la mattina successiva aveva avuto un’idea: se era
impossibile che la mamma tornasse, bisognava almeno che la piccola Lucia
fosse certa che stava ancora vegliando su di loro. Visto che tutte le
preghiere fatte alla sera, prima di dormire, non avevano finora avuto
risposta (il che era comprensibile, perché il cielo era tanto lontano, e
la voce di Clara tanto sottile) bisognava andare dritti alla fonte. Se
gli avesse spiegato come stavano le cose, Gesù bambino – che non era
tanto più piccolo di Lucia e di sicuro era tanto buono, lo dicevano
tutti – di certo l’avrebbe ascoltata. Ogni giorno, mentre tornava da
scuola, Clara vedeva il grande presepio allestito in piazza, sul sagrato
della chiesa. Ogni giorno si fermava a guardare la statua della Madonna,
con quel bel velo azzurro e gli occhi buoni, e san Giuseppe, con il suo
bastone da falegname. Ogni giorno scrutava la mangiatoia piena di
paglia, sempre vuota. Quando aveva chiesto alla nonna perché non ci
fosse il bambino dentro, lei le aveva risposto che era ancora presto,
che Gesù sarebbe arrivato la sera della Vigilia. E la sera della Vigilia
Clara e la sorellina avrebbero dovuto essere lì, per rivolgergli la loro
richiesta. Sicuramente dal cielo il vero Gesù sarebbe stato ben attento
a cosa succedeva alla sua statuina sulla terra e le avrebbe sentite
chiaramente.
Il ventiquattro dicembre,
dopo cena, mentre la nonna guardava il concerto di Natale alla
televisione e già la sua testa iniziava a ciondolare, le palpebre a
calare, Clara aveva vestito Lucia. Le aveva messo il maglione pesante,
la giacca, la sciarpa, il berretto col pon pon che la mamma le aveva
fatto ai ferri l’inverno precedente.
“Dove andiamo?” aveva chiesto la piccola.
“A cercare le nostre farfalline bianche”, le aveva risposto
trascinandola silenziosamente verso la porta d’ingresso. Era importante
che la nonna non si accorgesse di niente, perché non le avrebbe mai
lasciate andare. Sentendola russare sulla poltrona, Clara aveva riso
piano ed era sgusciata con la sorella fuori dalla porta d’ingresso, dopo
aver sfilato le chiavi dalla toppa. Per fortuna la chiesa non era
lontana. Bastava seguire la strada per qualche minuto e sperare di non
incontrare nessuno. All’improvviso alla bambina venivano in mente tutte
le raccomandazioni dei grandi, tutte le storie su quei cattivi
sconosciuti che ti offrono le caramelle e ti rapiscono e non ti lasciano
più tornare a casa. Iniziava ad avere un po’ di paura e c’era tanto
freddo. E cosa avrebbe fatto se neanche Gesù bambino l’avesse ascoltata?
La piccola Lucia si stringeva al suo fianco, stranamente taciturna. A un
certo punto però aveva alzato la manina grassoccia a indicare un punto
davanti a loro e aveva bisbigliato “Eccolo!” con un tono pieno di
meraviglia. E in effetti, a pochi metri di distanza, in una mangiatoia
illuminata, giaceva il bambinello appena nato, tutto nudo, salvo un
piccolo panno bianco che gli copriva il pancino.
“Ma non avrà freddo?” aveva chiesto Lucia.
“Ma no, ci sono il bue e l’asinello che lo scaldano”, aveva risposto
meccanicamente Clara. “Ma sono finti”
“Anche lui è finto, sono solo statue!”
“Ma lui è il bambin Gesù!”, aveva ribattuto Lucia, stizzita per la
sconsideratezza della sorella, a cui voleva tanto bene, ma a che a volte
non capiva proprio niente, neanche le cose più elementari. Allora la
piccola si era tolta la sciarpa e, sgusciando dietro il recinto del
presepe, l’aveva usata per coprire amorevolmente il corpicino nella
paglia. Poi, dopo aver sfiorato le labbra con la punta delle dita, aveva
deposto un bacio sulla fronte del bimbo ed era corsa via, per tornare
dalla sorella. Clara aveva iniziato a ridacchiare, chiedendosi cosa
avrebbe pensato il parroco il mattino seguente nel trovare Gesù avvolto
in una sciarpa rossa con le renne. Sentendosi un po’ stupida per aver
coinvolto la sorellina in una simile avventura, le aveva afferrato la
mano per riportarla a casa. Si rendeva conto tutto a un tratto che, se
Gesù non aveva ascoltato la sua preghiera da casa, probabilmente non
l’avrebbe fatto neanche da lì. Non sarebbero stati cento metri e una
statuina a fare la differenza. Per i messaggi della mamma, avrebbero
dovuto aspettare la primavera.
Camminava a testa bassa, stanca e infreddolita, quando Lucia aveva
iniziato a ridere e a gridare: “Guarda, Lala, guarda! Le farfalle!”. Ed
in effetti una piccola farfalla, bianca e leggera come quelle che a
primavera volano sui prati, volteggiava davanti ai suoi occhi. Ma no,
aspetta, non una sola, erano due, tre, cento, mille. La neve cadeva
piano intorno a loro, disegnando strani vortici nell’aria per gli
scherzi del vento. Il bambinello, nella mangiatoia, pareva sorridere di
un sorriso nuovo. Lucia, ridendo, correva in tondo e girava su se stessa
con la testa rivolta al cielo, mentre inseguiva le farfalle e cercava di
acchiapparne quante più avesse potuto. Anche Clara rideva, o forse
piangeva, non lo sapeva bene nemmeno lei. Un fiocco di neve le si era
posato sulla mano tesa, lei lo studiava da vicino e intanto si
compiaceva di quanto fosse stata intelligente la sua mamma.
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La solita vigilia, le
solite luminarie, i soliti sorrisi da brava e buona gente. Ogni tanto
qualche accidente,ma anche quello ci stava nella vita di un cocker
randagio come lui, soprattutto quando si avvicinava al retro di qualche
ristorante e si prendeva un bel calcio nel didietro.
Il pelo color miele tutto
sporco e arruffato; il sangue raggrumato su una ferita dietro
l'orecchio; le pulci che non gli lasciavano tregua: anche lui ormai
faticava a riconoscersi. Se solo avessero saputo chi era stato una
volta quel “cane rognoso”!
Era quello l'appellativo
con cui lo chiamavano più spesso, dopo che era stato abbandonato quattro
mesi prima col delizioso e benaugurante nome di Lucky.
“Mai nome si è rivelato
più inadatto” uggiolò sconsolato il cucciolo, continuando a vagare per
le vie del centro, in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
Come bambino, tanti e
tanti anni prima, era stato battezzato Amedeo, Amedeo Righetti, figlio
del famoso notaio Zeno.
Dopo una breve vita
trascorsa negli agi e nel lusso, il piccolo Amedeo era stato colpito a
soli dieci anni da una malattia rara che in breve tempo lo aveva portato
via. L'ultima cosa che aveva visto era stato il volto di sua madre,
seduta al suo capezzale. Il suo dolce sorriso, le sue calde carezze, i
suoi occhi grandi e carichi di dolore. Lui a un certo punto si era
lasciato andare, proprio come gli succedeva prima di addormentarsi
quando era troppo stanco dopo una partita di calcio con gli amici. Poi
il buio aveva oscurato la memoria di quello che era accaduto dopo.
Della sua mamma canina e
degli altri cuccioli ricordava poco o nulla, poiché era stato separato
da loro molto piccolo e a malapena svezzato.
Non comprendeva come mai
gli fossero rimasti dei brandelli di coscienza della sua vita
precedente, cosa che non succedeva nella
maggioranza degli altri
animali che aveva incontrato fino ad allora.
Si abbaiava del più e del
meno, si ringhiava di fronte allo stesso osso conteso, si guaiva per
qualche malanno. Eppure solo lui e pochi altri si ricordavano, seppur
vagamente, di un' esistenza diversa. Ad esempio, il sindaco Bonotti,
vecchio gatto nero e spelacchiato, che regolarmente gli soffiava
contro nel cortile dove se ne stava accoccolato venti ore al giorno.
In quell' altra vita aveva preso di mira chi non era bianco, bigotto e
benestante come lui. E ora si ritrovava malnutrito, con la fama di
iettatore e preso spesso a bastonate da un povero emigrato, sempre
arrabbiato col mondo e dedito a frequenti sbornie di vino scadente.
Aveva riconosciuto anche
un famoso personaggio televisivo, ai suoi tempi quasi onnipresente in
svariate trasmissioni. In veste di variopinto pappagallo, non faceva che
gracchiare tutto il giorno dal davanzale di un palazzo del centro. Ai
passanti ripeteva in continuazione “Buooonasera amici, saluuuti da
Pepito, Pepito, Pepito!”
“Che vita da cane!”
pensava il povero Lucky che si era riparato dal vento freddo sotto un
porticato. Sbattuto in autostrada dall'egoismo di padroni capricciosi
che dovevano partire per un lungo viaggio in Indonesia, per poco non gli
era scoppiato il cuore in mezzo a quei mostri ruggenti che correvano
come saette. Era riuscito a scamparla e si era ritrovato a vivere da
randagio, imparando a lottare con altri senzafamiglia come lui per
qualche avanzo di cibo scovato qua e là .
Chiuse gli occhi, cercando
di assopirsi, per non pensare ai morsi della fame che gli attanagliavano
lo stomaco.
All'improvviso si rivide
bambino, mentre preparava il presepe insieme ai suoi fratelli la vigilia
di Natale. Che strano! Era la prima volta che ricordava così bene nei
minimi particolari qualcosa della sua vita precedente. La sua specialità
era sempre stata disporre gli animali, mentre i fratelli più grandi si
occupavano di tutto il resto.
I dromedari, le pecore, i
maiali, le galline, le oche... Solo alla fine sistemava i tre cani
pastore, accanto ai loro greggi.
-Ma Gesù non ce l'aveva un
cane?- aveva chiesto una volta alla mamma.
-Beh, il suo papà faceva
il falegname, forse un cane non gli serviva...
Era rimasto deluso da
quella risposta. Un cane sarebbe stato un ottimo compagno di giochi per
un bimbo senza fratelli come Gesù.
Una folata di vento più
gelido riscosse il piccolo cocker da quel ricordo. Si sentiva debole e
intirizzito. Lui che aveva sempre amato gli agi, le coccole, il cibo in
scatola... ora non trovava da mangiare nemmeno un vecchio ratto. C'era
nell'aria dell'imbrunire un odore strano: sapeva che di lì a poco
avrebbe iniziato a nevicare. Sarebbe morto in breve tempo e di lui non
sarebbe rimasto che un fagotto di pelo congelato, sotto le luminarie a
forma di stelle. L'indomani lo avrebbero gettato in un cassonetto:
forse avrebbe avuto un'altra chance, o forse ci sarebbe stato solo il
buio assoluto, per sempre.
Alzò lo sguardo e fissò il
maestoso albero pieno di luci e di nastrini che si trovava poco lontano,
in mezzo alla piazza. I bambini del paese avevano allestito sotto di
esso un grande presepe, portando ciascuno qualcosa. C'erano statuine di
dimensioni diverse, alcune di plastica, altre di terracotta...Alcune
pecore era fatte con il cotone idrofilo, alcuni pastori con dei tappi di
sughero e degli stuzzicadenti. Era davvero un presepe bislacco, eppure a
Lucky sembrava bellissimo. All'improvviso sentì cadere sul muso i primi
fiocchi di neve e poco dopo un turbinio di minute farfalline bianche
invadeva il cielo ormai scuro. Gli occhi del cucciolo iniziarono ad
appannarsi: una grande stanchezza stava per sopraffarlo, di nuovo, come
tanto tempo prima.Stava per lasciarsi
andare, quando sentì il
calore di una grossa mano che lo sollevava. Alzò lo sguardo e vide prima
la barba e poi gli occhi di un vecchio che lo fissava sorridente con
sguardo bonario. Poi vide un bimbo piccolo, cullato tra le braccia di
una ragazza mora, dagli occhi lucenti, pieni di tenerezza. La mano dell'
uomo accarezzò la testa e il dorso di Lucky con un calore che non aveva
mai provato, poi depose per terra il cucciolo, che iniziò a
scodinzolare in segno di riconoscenza. La ragazza mise il neonato in una
culla, poi versò in una ciotola, accanto al cagnolino, un po' di buon
latte di capra che un pastore aveva donato alla povera famigliola. Il
cucciolo iniziò a lappare avidamente: il cuore gli esplodeva di gioia e
si sentiva pervaso da una serenità mai provata. Quelli sarebbero stati i
suoi nuovi padroni e non l'avrebbero mai abbandonato.
-Ehi, guarda c'è un
cocker nella capanna- gridò un bimbo lentigginoso alla mamma,
osservando il presepe della piazza.
-E' il cane di Gesù!-
esclamò un'altra bimba.
Un cagnolino di
terracotta se ne stava accucciato accanto alla mangiatoia, davanti a
una piccola ciotola. Quel cocker non era più Lucky e nemmeno Amedeo
Righetti. Adesso era solo un cucciolo del presepe, ma era davvero
felice. |