L’asinello era
stanco. Aveva camminato per ore su strade polverose portando sul dorso
Maria e il suo misero bagaglio.
Aveva fame ed aveva sete,
sognava di trovare presto un luogo di ristoro, ma, ascoltando i discorsi
dei suoi padroni, cominciava a perdere le speranze. Giuseppe, che gli
camminava a fianco ed aveva i piedi che sanguinavano nel cuoio dei
sandali, ogni tanto gli carezzava la testa, gli dava un buffetto su un
orecchio, gli sussurrava: «Coraggio, amico mio, fra poco ci siamo» ma
ormai l’aveva detto tante volte e, ad ogni nuova sosta, la delusione si
ripeteva.
«Giuseppe, sono stanca, non ce la faccio più, e se non riuscissimo a
trovare ospitalità?» chiedeva Maria con voce sempre più flebile ed
affaticata.
Lei aveva camminato solo per brevi tratti, ma sentiva più di tutti la
fatica perché la nascita del suo bambino era imminente.
«Fatti forza, Maria. Lo so, finora tutti i locandieri ci hanno respinto,
ma un po’ più avanti troveremo altri alberghi e vedrai che ci sarà un
posto anche per noi!»
Maria taceva; l’asinello si rianimava di speranza e riprendeva vigore
nel cammino.
«Signore, quanta strada manca alla prossima locanda, per favore?» chiese
Giuseppe ad un passante.
«Poca, amico. Appena girato l’angolo c’è la taverna del sole, è l’ultima
del paese, ma non crederai di trovare posto, vero, con tutta la gente
che è arrivata qua per il censimento?»
«Il Signore mi aiuterà».
La strada, poco più avanti, descriveva un’ampia curva e, subito dopo,
c’era la locanda, ma, già da fuori si vedeva che era affollata. Il
taverniere, un uomo grasso e rosso in viso, stava davanti alla porta e
vide arrivare il terzetto: un asino striminzito e traballante, una donna
in groppa, ripiegata su se stessa come se fosse malata, un vecchio
dall’aria sfinita, sicuramente pessimi clienti.
«È inutile che ti fermi, amico, qui non c’è posto, tira diritto con la
tua donna ed il tuo asino».
«Ti prego oste, siamo distrutti, mia moglie sta male, ci accontenteremo
di qualsiasi angolo…»
«Hai sentito cos’ho detto? Non ho posto, vattene via» e rientrò
sbattendo la porta.
Maria cominciò a piangere silenziosamente e Giuseppe non trovava più
parole per consolarla. Avevano chiesto dappertutto, a tutti, nelle
locande e nelle case, per pietà e nel nome del Signore, ma sembrava che
a Betlemme non ci fosse misericordia.
Giuseppe, con dolcezza, trascinò un po’ più in là l’asino che se ne
stava piantato immobile sulle zampe stanche, e lo fece sostare sotto la
scarsa ombra di un albero contorto, a lato della via polverosa. Fece
scendere Maria, l’aiutò a distendersi sul ciglio della strada e le si
sedette vicino, appoggiando la schiena al fusto della pianta. Estrasse
dalla bisaccia qualche provvista ed un otre d’acqua. Anche l’asinello
bevve dalle mani a coppa di Giuseppe, poi mangiò un po’ d’erba rada.
Mentre Giuseppe carezzava il viso a Maria, senza più la forza di
parlarle, lei si addormentò e, poco dopo, anche lui cadde in un sonno
profondo.
Dopo qualche ora, quando il sole aveva attraversato ormai buona parte
del cielo, Maria si svegliò e lanciò un’esclamazione di stupore.
Giuseppe sussultò e si guardò intorno, sorpreso: l’asino non c’era più.
Dopo un breve riposo, l’asinello aveva riaperto gli occhi.
Davanti a lui, i suoi buoni padroni dormivano accoccolati per terra,
come due pezzenti, con l’aria sfinita.
«Non è giusto» pensò. «Non è giusto che siano trattati così e che si
trovino in questa miserabile situazione. Ogni bambino che nasce merita
di trovare un comodo nido ad accoglierlo, non i ciottoli della strada».
Pensò a lungo a come avrebbe potuto essere d’aiuto e, infine, gli venne
un’idea: «I miei padroni si sono rivolti sempre a delle persone»,
rifletté, «senza avere nessuna solidarietà da parte loro. E se io
provassi, invece, a chieder aiuto agli animali? Sono miei fratelli e
chissà, forse potrebbero indicarmi una soluzione!»
Decise di mettere subito in atto il suo progetto: trotterellando piano,
per non svegliare Giuseppe e Maria, si allontanò da loro e, seguendo il
suo istinto, si inoltrò nella campagna brulla.
Camminò a lungo in mezzo alla polvere, ai sassi, all’erba rada, si
inoltrò per viottoli appena tracciati e, finalmente, gli arrivò agli
orecchi un coro di belati.
«Finalmente!» pensò l’asino, fiducioso. «Non mi poteva capitare di
meglio! Ci dev’essere un gregge qui vicino e le pecore, si sa, sono
animali mansueti, dall’animo tenero. Amano e proteggono i loro agnellini,
non potranno rifiutare l’aiuto a un bimbo che sta per nascere».
Fatti pochi passi, arrivò in vista di un recinto di legno che
racchiudeva un gruppetto di pecore. Appena si avvicinò, alcune di loro
gli si fecero incontro, curiose, subito imitate da tutte le altre, in un
coro di belati.
«Salute a voi, buone pecorelle!» le salutò, e raccontò loro la storia di
Maria che non aveva un posto dove partorire e di Giuseppe che soffriva
tanto perché non riusciva a risolvere il problema.
«Sono certo che voi comprenderete», disse, «anche voi siete mamme e un
cuore di mamma si riconosce subito per la sua generosità.
Le pecore erano visibilmente commosse e pronte a dargli tutto il loro
appoggio.
«Certo, ma certo, sicuro che aiuteremo i tuoi padroni!» assicurò la
pecora più lanosa, forse a capo del piccolo gregge «Qui c’è un sacco di
posto e noi saremo ben contente di offrire a Maria e Giuseppe il nostro
latte fresco e la nostra lana per riscaldare il piccino. Corri, vai
subito a chiamarli e portali qui!»
L’asino era al settimo cielo per la gioia e si stava profondendo in
mille ringraziamenti quando, dal nulla, si materializzò un grosso cane
nero che, abbaiando come una furia, si avventò contro la staccionata.
L’asino sobbalzò per lo spavento e le pecore, terrorizzate, si
dispersero in un istante.
«Vattene via, asino forestiero!» latrò il cane, minaccioso. «Non hai il
diritto di stare qui, né di parlare alle pecore di cui io sono
responsabile. Sparisci subito e non farti più vedere da queste parti o
ti farò assaggiare i miei denti aguzzi!»
Al povero asino non rimase che abbassare le orecchie e riprendere,
sconsolato, il cammino.
«E adesso», pensava, «dove andrò a cercare aiuto? Non si fanno tanti
incontri, in questa landa deserta!»
Camminò ancora a lungo, tendendo gli orecchi per percepire eventuali
rumori e annusando l’aria alla ricerca di eventuali odori e, finalmente,
sentì un lontano, fitto chiacchierio.
Allungò allora il passo, finché raggiunse l’aia di una fattoria. Proprio
davanti all’ingresso, un capannello di galline chiocciava animatamente,
razzolando. L’asino si fermò educatamente in disparte ad aspettare che
finissero di disquisire su chi avesse deposto l’uovo più grosso quella
mattina.
Appena una lo vide, lo indicò alle altre e tutte si zittirono perché
quelli erano discorsi privati da non far sentire agli estranei.
«Non ti abbiamo mai visto da queste parti, asino» lo apostrofò la
gallina più pennuta. «Chi sei?»
L’asinello si presentò e, di nuovo, raccontò la triste storia dei suoi
padroni, Maria e Giuseppe, che non avevano un posto dove far nascere il
loro bambino. Le galline si intenerirono e ripresero a chiocciare forte,
come tante comari, proponendo ciascuna una soluzione diversa.
Alla fine, fu la solita a parlare: «Vai a chiamare i tuoi padroni» disse
«e accompagnali qui. Il pollaio è grande e noi riserveremo loro il posto
più comodo, daremo loro le nostre uova per sfamarsi e, quando il bambino
sarà nato, gli offriremo le nostre penne più morbide per scaldarsi».
L’asino non stava in sé dalla felicità e cominciò a fare profondi
inchini alle galline e a ringraziarle una ad una, ma, all’improvviso,
dal nulla comparve un gallo sbruffone che, capita la situazione, montò
su tutte le furie e, sbatacchiando cresta e bargigli, prese a gridare: «Nessuno
deve entrare qui! Nessuno deve parlare con le mie galline! Io sono il
loro capo, io ho la responsabilità! Le galline sono tutte mie e devono
badare solo a me!»
Le povere bestie, spaventatissime, in un lampo si dispersero per il
cortile e l’asino rimase solo, di fronte al gallo infuriato che lo
minacciò: «Asino molesto, vattene subito da qui e non farti mai più
rivedere nei dintorni, o ti farò assaggiare il mio becco appuntito».
Per la seconda volta, l’asinello, deluso e amareggiato, dovette
allontanarsi con la coda tra le zampe.
Erano ormai passate delle ore da quando aveva lasciato i suoi padroni;
alzò gli occhi al cielo e si avvide che il sole aveva camminato tanto,
verso occidente.
«Maria e Giuseppe si saranno di certo ormai svegliati» pensò la buona
bestia. «Chissà cosa penseranno non trovandomi più! Magari che li ho
abbandonati anch’io! Devo tornare subito da loro, anche se a mani vuote».
Riprese quella che, secondo lui, era la giusta direzione, ma, ben
presto, si avvide che il sentiero imboccato non era lo stesso che aveva
percorso all’andata.
«Spero di non essermi perso» rifletté, guardandosi intorno. «Non avevo
mai visto questo albero, e nemmeno queste grosse pietre, e nemmeno la
povera casupola di legno che sta laggiù». La raggiunse animato da una
nuova speranza e si fermò davanti alla porta socchiusa ad ascoltare
l’incessante borbottio che proveniva dall’interno.
Sbirciò e vide un vecchio bue che ruminava e brontolava tra sé.
«Buon bue!» chiamò l’asinello, ma non ebbe risposta.
«Buon bue!» ripeté alzando un po’ la voce, ma quello continuò
imperterrito a ruminare.
«Buon bue!» ragliò forte e, finalmente, il vecchio animale voltò la
testa e chiese: «Qualcuno mi ha chiamato?»
Strizzò gli occhi e li fissò sull’estraneo che si era introdotto nella
sua stalla.
«Chi sei?» gli chiese. «Mi sembri un asino. Che cosa vuoi?»
Fu un’impresa per il nostro asinello spiegare al bue la situazione dei
suoi padroni, perché l’animale era quasi completamente sordo e, a ogni
parola, chiedeva: «Come? Che cosa hai detto?
Puoi ripetere?»
Alla fine, quando finalmente gli fu tutto chiaro, si dichiarò
assolutamente disponibile ad aiutarli, anzi, addirittura entusiasta.
«Vai di corsa a chiamare Maria e Giuseppe» disse. «E accompagnali qui.
In quell’angolo c’è una vasca piena d’acqua, sul pavimento c’è della
paglia pulita e, quando il bimbo nascerà, sarò ben felice di offrirgli
come culla la mia mangiatoia. Io e te veglieremo su di lui e potremo
anche riscaldarlo con il nostro fiato. Io soffro tanto la solitudine,
non mi sarebbe potuta capitare una cosa migliore. Finalmente avrò una
famiglia. Vai, svelto!»
All’asinello sembrava di volare per la felicità mentre, improvvisamente
svanita ogni stanchezza, correva a chiamare i suoi padroni.
La direzione, per fortuna era giusta, infatti li incontrò di lì a poco:
Giuseppe sosteneva amorevolmente Maria ed insieme arrancavano per la
strada, senza meta.
Quando lo videro, non lo sgridarono per essersi allontanato, anzi,
Giuseppe gli gettò le braccia al collo e lo ringraziò di essere tornato
e, quando seppero che proprio l’asinello aveva trovato loro un rifugio,
si sentirono grati e felici.
Raggiunsero la capanna e lì, dopo poco, Maria diede alla luce il suo
bambino, assistita da Giuseppe.
L’asino ragliava di felicità, mentre il bue piangeva come una fontana
per la commozione. Anche se quasi sordo, gli sembrava di sentire una
musica celestiale e, anche se quasi cieco, gli pareva che all’improvviso
la stanza fosse inondata di luce.
Non era un’impressione: fuori della sua capanna,
due angeli biondi suonavano una ninna nanna dolcissima e, sopra il tetto,
brillava una stella cometa.
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Faceva freddo in Italia, Hamina lo sentiva bene. Il
freddo le gelava il naso, le pizzicava gli occhi e le appannava il fiato.
La mamma l’aveva coperta con cura: cappello, sciarpa, giaccone e scarpe
pesanti. Hamina non aveva mai dovuto portare tanta roba addosso – nel
suo paese faceva caldo anche d’inverno – e le sembrava di essere goffa e
lenta come gli astronauti in TV.
Stavano camminando per strada, sul marciapiede; la gente correva avanti
e indietro, ogni tanto urtava la bimba
senza accorgersene. C’era chi si fermava a
chiaccherare, ma anche le parole sembravano scivolare via per la fretta.
I negozi erano tutti illuminati a festa. Il
fratellino ne era incantato e si attardava davanti alle vetrine
premendoci il naso contro per guardare meglio.
Erano luci forti, che non scaldavano. Colpivano gli occhi come i rumori
aspri del traffico, che rintronavano le orecchie.
Finalmente arrivarono a casa, la nuova casa.
La mamma portava le borse della spesa e Hamina cercava di tirarsi dietro
il fratellino, che si era fermato davanti al negozio allangolo.
«Sbrigati!» gli disse Hamina. «C’è l’ascensore da prendere!»
Il bambino arrivò di corsa, sarebbe stato in ascensore tutto il giorno,
su e giù come una giostra. E che risate quando la porta si apriva da
sola, come per magia!
Si fecero stretti stretti per lasciare salire una mamma con la sua bimba.
Mamme e bimbe si guardarono e si sorrisero mentre il fratellino si
alzava in punta di piedi per schiacciare il secondo bottone.
Uscirono sullo stesso piano, l’altra mamma le invitò a gesti a entrare
per la merenda. Che casa strana avevano, con i mobili alti e tanti
spigoli. Però era buono il tè, anche se mancava la menta. Ed erano
buonissimi i biscotti, con il buco nel mezzo.
Il fratellino trovò subito un autobus da spingere, con gli omini che si
potevano mettere e togliere.
L’altra bimba disse indicandosi: «Paola». Era il suo nome.
«Baula" ripete` Hamina. Paola si mise a ridere scuotendo il capo,
«PA-O-LA» disse piu` lentamente. Anche Hamina rise perché le sembrava di
aver detto esattamente la stessa cosa.
Ora era il turno di Hamina. «HA-MI-NA» disse la bimba. «Amina» sorrise
Paola. «No, no» fece Hamina e, per far capire a Paola come bisognava
dire, la portò davanti a una finestra che cominciò ad appannare con il
fiato. «HA HA» facevano le due bimbe, creando nuvolette, «HA HA» e
ridevano a piu` non posso.
«Vieni, vieni» le fece Paola con la mano e andarono a giocare nella sua
cameretta. C’erano tantissimi giochi!
Su un tavolo d’angolo stava a prima vista ciò che Hamina paragonò a un
paesaggio: un fiume di carta argentata fra due rive verdi di palme,
pastori con i loro greggi, casupole bianche, un rifugio di roccia con
una mamma, un papà, un bimbo piccino, una mucca e un asino. Hamina
accarezzò il paesaggio con la mano e mormorò: «Biladi». Ma perché Paola
aveva un gioco che le ricordava tanto il suo paese, c’era già stata? Lo
conosceva? La bimba si girò verso Paola con un largo sorriso ed esclamò
«Biladi!»
Paola rispose «PRE-SE-PE».
In quel momento si affacciò alla porta della cameretta il papà di Hamina.
A casa non aveva trovato nessuno, aveva teso l’orecchio e aveva capito
che i suoi bimbi erano ospiti della famiglia accanto. «Hamina, dobbiamo
andare a...» ma la bimba lo interruppe: «Papà, papà, guarda: il mio
paese!» e gli fece una sfilza di domande, tutta emozionata.
«D’accordo, d’accordo, mentre andiamo a casa ti spiego» rispose papà.
Ringraziarono e si salutarono. Il papà di Hamina aveva imparato bene
l’italiano nell’albergo dove lavorava e la conversazione fra i grandi
scorreva più facilmente. Passando davanti all’ascensore incrociarono il
papà di Paola, che stata rientrando dal lavoro. I due papà si fermarono
un momento per presentarsi e Hamina colse, fra le tante parole
incomprensibili, quella parola nuova – presepe – che le aveva insegnato
Paola poco prima.
Il papà fece in tempo a togliersi il giaccone e a sedersi su una sedia.
Hamina gli volò sulle ginocchia con le orecchie tese: «Tanto tempo fa
nacque in un piccolo paese poco più su del nostro un bambino di nome
Gesù...»
«Perché il papà e la mamma gli permettono di tenere gli animali in casa?
Voi non mi avete mai lasciato dormire con gli animali» interruppe Hamina.
«Hamina, ascolta. Era Gesù che dormiva nella casa degli animali, non
viceversa, perché i suoi genitori avevano dovuto fare un viaggio e il
loro bimbo era nato lungo la strada. L’unico riparo che mamma e papà
avevano trovato era quella grotta abitata da una mucca. E visto che la
notte era fredda, loro erano poveri e non avevano nulla per riscaldare
Gesù...»
«Gli hanno messo vicino gli animali per tenerlo caldo!» disse Hamina
tutto d’un fiato.
«Quando Gesù diventò grande fece tante cose buone e disse tante cose
belle. In Italia ancora oggi la gente va nelle chiese per ascoltare
quello che lui ha detto e fatto e una volta l’anno ricordano la sua
nascita…»
«Con il paesaggio!» interruppe di nuovo la bimba.
«Quel paesaggio si chiama presepe» concluse papà.
Hamina era nel suo lettino. Anche se aveva tre coperte, sentiva freddo.
Pensò al piccolino nella grotta e mormorò, prima di addormentarsi: «Domani
devo portare a Paola una copertina per Gesù».
L’indomani i due bimbi non vedevano l’ora che arrivasse papà: aveva
promesso di portarli al parco giochi! Il papà arrivò che era ancora
chiaro: «Svelti bimbi, preparatevi, che il sole sta già andando a nanna!»
Prima di infilare la porta dell’ascensore la mamma li richiamò. Aveva
preparato un cestino di dolci al miele da portare ai vicini. C’era anche
un piccolo ritaglio di stoffa azzurra a cui Hamina aveva fermato il
risvolto con due punti di filo: era la copertina per Gesù.
Il fratellino suono` il campanello e la mamma di Paola venne ad aprire.
Paola fu contenta di vedere i due bimbi. Le piacque immensamente la
copertina azzurra e andò subito a metterla addosso a Gesù. Tornò di
volata alla porta con due pacchettini in mano: due paia di guanti, nuovi
nuovi! Un paio rosso per il fratellino e un paio blu per Hamina. E
chiese al papà di spiegare che quelli erano guanti fatti apposta per
giocare con la neve, dentro non si bagnavano e le mani rimanevano calde
e asciutte. «Vieni con noi» le disse Hamina a gesti, ma Paola non poteva
seguirli al parco quel pomeriggio perché stava aspettando i nonni. I
bambini si salutarono.
Hamina si divertì un mondo al parco giochi. Lei e il fratellino non
smisero un momento di correre, e il papa` dietro di loro. «Almeno cosi`
ci teniamo caldi» pensò papà.
Faceva freddo in Italia, Hamina lo sentiva bene, anche nel suo lettino.
Quella sera si ricordò dei guanti nuovi di Paola e se li infilò. Stava
già meglio, sotto le tre coperte, e il naso infilato fra le mani
guantate. «Chissà che odore ha la neve...» penso` Hamina mentre
scivolava nei sogni.
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