Sapevo non sarebbe arrivato. Come non era arrivato
l’anno precedente e quello prima ancora. La curva in fondo alla strada
era muta da giorni. Del resto, anche in estate, non è che di auto ne
passassero molte. Sapevo bene che chiunque avesse deciso di avventurarsi
in quel mare di neve avrebbe dovuto farlo a piedi. E che avrebbe
impiegato ore per arrivare. Ma ci speravo. Si, accidenti, erano anni che
ci speravo. Cominciavo già i primi di dicembre a guardare quella curva e
a sperarci.
Durante la bella stagione la sua assenza si faceva sentire, ma le corse
nei campi, le vacanze, la raccolta delle mele e dell’uva riuscivano a
impedirti di pensare. Ma a Natale, no.
Per le feste, mamma e papà si davano un gran da fare a comprare doni,
addobbare la casa, mandare gli auguri a zia Clotilde e zio Gianni, che
vivono in America. Poi preparavano la tavola con le candele e la
tovaglia rossa, invitavano nonna Adele, stappavano lo spumante e
auguravano a tutti un felice Natale.
Ma non era mai un felice Natale. Non lo era per nessuno. Non lo era da
anni.
Certo, la vigilia si telefonava, si scrivevano i biglietti da
appiccicare al regalo che mamma e papà gli avrebbero portato il giorno
dopo. E nel pomeriggio del venticinque, finito di mangiare la torta,
partivano per Milano e lo andavano a trovare. Ma io restavo a casa. “Non
è posto per bambini”, diceva papà. “Quando sarai grande”.
Avevo parlato a Timmy di questo problema, ma non sembrava importargli
più di tanto. Pur avendo solo dodici anni, so bene che un gatto non può
venire a dirti “quanto mi dispiace” o “vedrai che tornerà”. Per il
semplice fatto che i gatti non sanno parlare. Però, ascoltano. E
comprendono.
Mamma piangeva. Lo faceva di nascosto, ma sapevo che lo faceva. A volte,
sentivo lei e papà parlare sottovoce, per non farsi sentire. E ogni
volta finiva che piangeva.
No, non sarebbe arrivato. A osservare bene, giù alla curva, si intuivano
alcune impronte. Qualcuno era passato di recente. Ma andavano nella
direzione opposta, verso il paese, E poi, la neve che continuava a
cadere ormai da due giorni, le avrebbe cancellate nel giro di qualche
ora. Avrei dovuto aspettarne di nuove.
Quando ero più piccolo, ricordo che domandavo spesso di lui. E ogni
volta ricevevo una risposta diversa. Mamma diceva che era in America da
zia Clotilde. Nonna raccontava che era ammalato e che doveva curarsi.
Papà cercava di convincermi che aveva trovato un lavoro lontano e che
per questo non riusciva a venire.
Nessuno voleva dirmi come stavano davvero le cose. Come se un bambino di
sette anni non fosse in grado di capire.
E c’era un’altra cosa strana: nessuno pronunciava mai quella parola.
Se ne parlava la televisione, allora si cambiava canale. Se davano un
film sull’argomento, allora papà diceva che non c’era nulla di bello e
si giocava alle carte.
Lo facevo di nascosto. Quando restavo a casa da solo, oppure mi
portavano da zio Gianni che è sordo, seguivo tutti i documentari
sull’argomento. Anche i telegiornali, volevo sentire. A mamma dicevo di
aver guardato i cartoni animati tutto il pomeriggio. Figurarsi. Credo di
non averne mai visto uno in tutta la vita.
Ciò che mi aveva fatto più male era il fatto di averlo saputo a scuola.
Nessuno me lo aveva detto prima. Pensavo davvero che Renzo fosse in
America, o in un paese lontano.
“Tuo fratello è un drogato. Tuo fratello è un delinquente. Tuo fratello
sta in galera, non l’hai ancora capito?”
Di notte piangevo. Non ci volevo credere. Mi chiedevo per quale ragione
fossero tutti così cattivi. Poi, un giorno, trovai il coraggio di
chiederlo a mamma.
«Chi ti ha detto una cosa del genere?»
«I miei compagni di classe.»
«Non gli devi credere. Renzo non è in prigione. È ammalato. Ma si sta
curando in una comunità, e presto tornerà a casa.»
«Che cos’è una comunità?»
«è una grande famiglia, dove vengono curati i ragazzi che hanno i
problemi di Renzo».
«Quali problemi?»
«Ha una malattia con il nome difficile. Ma guarirà.»
Col tempo, avevo imparato che la malattia con il nome difficile si
chiamava eroina. Sapevo pure delle siringhe e dell’angoscia che ti
prende quando l’effetto della droga è passato. Davano un programma in
televisione, tutti i lunedì. Ne sapevo più di mamma e papà messi
insieme, probabilmente. Ma non osavo dirglielo. Forse un giorno lo avrei
fatto.
A una settimana dal Natale, l’ultimo giorno di scuola litigai con il
Ceretti. Era il più cattivo di tutti. Per colpa sua, in classe ero “il
drogato”. Diceva che Renzo stava in prigione perché condannato
all’ergastolo. E che sarebbe finito sulla sedia elettrica.
Così, pur essendo più grosso di me, quel giorno gli diedi una sberla.
Fortuna volle che la maestra se ne accorgesse per tempo e intervenisse
prima che il Ceretti potesse reagire.
Andai a casa e raccontai tutto a nonna. Mi raccomandai tanto che non lo
dicesse a mamma, ma lei lo fece ugualmente.
«Giuseppe, che hai fatto a scuola?»
«Nulla, mamma. Le solite cose. Mi prendono in giro.»
«Per via di Renzo?» Era stata la preside a dirglielo.
«No, che c’entra. Mi ha detto che sono uno stupido e gli ho dato una
sberla.»
«Non voglio che fai a botte in classe!» Si avvicinò, si piegò sulle
ginocchia e mi accarezzò i capelli. «Hai pensato a cosa vuoi per Natale?
No, aspetta, Non me lo dire. Quest’anno avrai il regalo più bello del
mondo. Un regalo che hai sempre sognato. Indovina un po’....»
La guardai, meravigliato. Non c’era nulla che desiderassi in maniera
particolare. Vivendo praticamente da figlio unico, avevo sempre potuto
avere tutto ciò che un bambino può desiderare. Un cavallo, forse. Ma
mica me ne potevano incartare uno per Natale. In estate, probabilmente.
Chissà. Papà me lo aveva promesso, fossi stato promosso.
«Non saprei..... È un cavallo?»
«Giuseppe....Un cavallo in pieno inverno? No. Di più. Molto di più.» Mi
prese il viso tra le mani. «Chiudi gli occhi. Esprimi un desiderio. Qual
è la cosa che più desideri al mondo?»
Non dovetti pensarci poi molto.
«Che Renzo torni a casa per Natale.»
Vidi il suo volto illuminarsi.
«Sai cosa fa papà, domattina? Lo sai?»
«No. Cosa fa?»
Mi diede un bacio in fronte, poi si alzò.
«Tesoro mio, preparati. Domani papà va a Milano a prendere Renzo!»
Non ci volli credere. Era troppo bello per essere vero. Ero convinto
fosse una di quelle cose che si dicono per Natale, giusto per far
contenti i bambini che sognano un giocattolo che non potranno avere.
«Non ci credo» ribattei, deciso. Mamma tornò a piegarsi sulle ginocchia.
«Domani Renzo torna a casa. Davvero. Te lo prometto. E passerà il Natale
con noi.»
«Me lo prometti davvero?»
«Davvero.»
Urlai di gioia e corsi a raccontarlo a Timmy.
Babbo non sarebbe tornato prima di sera. L’auto era inutilizzabile per
via della neve. Così, avrebbe dovuto andare a piedi fino alla fermata
della corriera, giù nel piano, arrivare in stazione a Domodossola e
prendere il treno per Milano. La stessa cosa al ritorno.
Mamma era indaffarata in parrocchia, in quel periodo, per via del
presepe. Prima di uscire, si raccomandò di non stare con il naso
appiccicato alla finestra, perché tanto papà e Renzo non sarebbero
arrivati che in serata. Cercai di darle ascolto, ma in realtà alle due
del pomeriggio già stavo a scrutare la strada.
Avevo pregato tutta la notte. Avevo chiesto a Gesù che fosse vero, che
mamma non si fosse inventata quella storia solo per consolarmi.
Quante volte avevo odiato quella curva. La odiavo praticamente da
quando, sei anni prima, aveva inghiottito Renzo. Faceva sparire papà,
quando andava al lavoro. E mamma, quando andava in parrocchia o alla
bottega, giù in paese. E ogni volta mi domandavo se li avrei rivisti.
Quando ci passavo per andare a scuola lo facevo di corsa, per evitare
che potesse far sparire anche me.
Ma ora mi avrebbe reso Renzo. Tra un’ora, due, dieci. Non potevo
saperlo. Promisi a me stesso che l’avrei perdonata, avesse restituito
mio fratello.
Rimasi incollato al vetro per ore. Verso le tre, per un attimo sembrò
smettere di nevicare. Poi ricominciò.
Alle quattro sbucò un cane randagio, dall’andatura incerta. Fece qualche
passo, poi tornò indietro e sparì un’altra volta.
Mamma sbucò in fondo alla strada che già iniziava a far buio. Cercai di
nascondermi, per evitare che mi vedesse alla finestra. Ma lei sapeva
bene che stavo lì.
«Giuseppe, è inutile che stai incollato a quella finestra. Non
arriveranno prima delle otto. Vai in camera tua, che prendi freddo.»
Ma la mia camera guarda verso la montagna, mica verso la strada. Non
avrei sopportato l’attesa.
«Mamma, ti prego. Fammi restare.»
Alle cinque si accese il lampione che illuminava la curva. Chiunque
passasse sotto la luce della lampada avrebbe riflesso la propria
immagine nella neve. Come un fantasma.
Arrivarono le sette. Poi le otto. Poi le nove. Giurai a me stesso che
avrei maledetto quella curva per tutta la vita, non avesse fatto
comparire Renzo.
Un quarto alle dieci, due ombre gialle si stagliarono nitidamente sotto
la luce artificiale del lampione. Sentì il cuore salire in gola. Cercai
di vedere meglio. Potevano essere papà e Renzo. Ma anche due persone
qualunque. Ne viveva di gente, in frazione.
Mi avvicinai al vetro. Sempre di più. Per un attimo ebbi l’impressione
di poterlo attraversare. Aprì la finestra.
«Giuseppe! Sei matto? Chiudi quella finestra. Vuoi prenderti una......»
«Mamma.... sono loro. È Renzo. È Renzo, vero? Si è lui. Sono sicuro.»
Mamma si avvicinò alla finestra, guardò un istante, poi portò le mani
sul volto e scoppiò in lacrime.
Non attesi la risposta. Mi precipitai per le scale, aprì la porta e mi
misi a correre nella neve. Con le pantofole ai piedi e il pigiama
indosso, il gelo penetrava nelle ossa ogni passo di più. Sentivo mamma
che urlava. Strillava di polmoniti, bronchiti e non so che altro. Ma
neppure tutte le polmoniti del mondo mi avrebbero potuto fermare.
«Renzo, Renzo» urlai.
Una delle due ombre cominciò a correre. Ci incontrammo esattamente a
metà strada. Credo restammo abbracciati per almeno dieci minuti. Fu papà
a staccarci e a portarci a casa.
Il giorno di Natale, mamma portò tutti a Messa. Prima della funzione
passammo a vedere il presepe che aveva preparato insieme alle altre
donne del posto. Non credo di averne mai veduto uno più bello. O forse
era la gioia che provavo, a farmelo apparire così.
Ero felice. Come non lo ero mai stato. Pure mamma e papà lo erano. E
pure nonna. Anche Renzo, credo.
Eppure, nell’aria si percepiva qualcosa di strano. Pensai si trattasse
solo di una mia sensazione, e sorvolai sulla questione.
«Renzo, non la prenderai più quella roba, vero?» gli chiesi quella sera,
infilandomi nel suo letto.
«No, Giuseppe. Non la prenderò più.»
«Me lo prometti?»
«Te lo prometto. Ma a una condizione.»
«Quale?»
«Che tu prometta a me di non caderci mai. Di non pensare mai, nemmeno
per un minuto, che sarebbe bello provare. Che saresti in grado di farlo
una volta sola e poi di lasciar perdere. Vedi, il problema è che, se
provi una volta, una volta sola, non puoi più tirarti indietro. Lo
vorresti fare. Ti accorgi di quanto stai male. Ti accorgi che stai
rovinando la tua vita e quella di chi ti sta vicino. Ma non riesci a
smettere. Proprio non riesci. Promettimi che non ti lascerai fregare...»
«Te lo prometto.»
«Un’altra cosa, Giuseppe. Vorrei te la ricordassi, in modo da non
commettere l’errore che ha fatto quello stupido di tuo fratello.»
Lo guardai. Sembrava sul punto di rivelare un grande segreto.
«Di che si tratta?» domandai, curioso.
«Prima o poi, qualcuno ti dirà che se non provi non sei un uomo. Che non
hai coraggio. Che sei un verme. Forse i tuoi amici non ti parleranno
più, se ti rifiuterai di farlo. Forse non verranno più a cercarti. Non
gli credere. Ricordatelo: non gli credere mai! Un vero uomo non si fa
tentare dalla droga, per il semplice fatto che ne può fare a meno.»
«E una donna?»
«Pure.»
Erano tutte cose che già conoscevo. Le avevo imparate grazie alla
televisione. Ma una cosa è sentirle in televisione, l’altra è farsele
raccontare da chi le ha vissute sulla propria pelle.
A gennaio tornai a scuola. E mi accorsi subito che qualcosa non andava.
Nessuno mi prendeva più in giro. Nessuno mi chiamava più “il drogato”.
Però, mi evitavano. Tutti. Anche Francesco, il mio compagno di banco. Un
giorno glielo chiesi.
«Perché non mi parli più? E perché nessuno mi saluta? Che ho fatto?»
«I miei non vogliono che ci vediamo. Mi hanno detto di non rivolgerti la
parola.»
«E perché mai?»
«Dicono che siete una famiglia cattiva.»
In quel momento capì molte cose. I pianti di mia madre, che non riuscivo
a spiegarmi, visto che Renzo era tornato a casa. L’indifferenza della
gente, che non mi salutava più quando la incontravo per strada. Il fatto
che mamma e papà non uscissero più di casa, se non la domenica per
andare in chiesa.
«Mamma, perché ce l’hanno con noi?» domandai una sera, a tavola.
«Nessuno ce l’ha con noi. Che stai dicendo?»
«Si, invece. A scuola nessuno vuole stare in banco con me. E la maestra
mi ha messo in fondo all’aula, da solo. Non ci voglio stare, da solo.
Non mi piace.»
«Verrò a parlarci. Non ci pensare.»
«Anche i Ceretti non parlano più. L’altro giorno papà ha salutato il
signor Luigi, e quello ha fatto finta di niente. Per quale motivo?»
«Non ci pensare. La gente ha tanti problemi. A volte non ha voglia di
salutare.»
Nei giorni a seguire, successero delle cose ancor più strane. Qualcuno
strappò la nostra cassetta postale dal palo a cui stava fissata. Un
altro giorno, papà trovò la nostra pianta di mele segata.
Una brutta sera, successe una cosa terribile: Timmy non tornò più. Mamma
passò ore a chiamarlo, in veranda. Io rimasi sveglio una notte intera ad
aspettarlo. Ma lui non tornò più. E persi l’unico vero amico rimasto.
Alle porte della primavera presi un grande spavento.
Di ritorno da scuola, seppi da nonna che Renzo era stato portato via dai
carabinieri.
C’era stato un furto in una casa del paese. I ladri erano entrati
smontando una serratura molto complicata. Un lavoro da esperti, si
diceva. Qualcuno aveva fatto il nome di Renzo. E così, siccome tanti
anni prima lui era stato arrestato per aver rubato in una casa, i
carabinieri erano venuti a cercarlo.
Quel pomeriggio, ripresi posto alla finestra. Sapevo che non poteva
essere stato Renzo a rubare in quella casa, e quindi ero certo che
sarebbe tornato prima di sera. Ma anche quella volta, come aveva fatto
per anni, la curva tacque.
Pensando a quel periodo, ricordo le numerose telefonate di papà:
all’avvocato, ai signori che avevano subito il furto, ai carabinieri.
Il giorno dopo, a scuola, notai subito di stare al centro
dell’attenzione. Durante la ricreazione, il Ceretti andò alla lavagna e
scrisse “il fratello di Giuseppe Sartori è un ladro”.
«Mio fratello non è un ladro!» urlai. Saltai sul banco e poi verso la
lavagna. Cercai di rifilargli un pugno sul muso. Ma quello era almeno
due volte più grosso. Mi diede uno spintone e mi mandò a sbattere contro
la parete. Picchiai pure la testa, tant’è che cominciò a uscire sangue.
La maestra, spaventata, mi portò in infermeria, poi chiamò mamma che
venne a prendermi.
«Non ci voglio più venire a scuola» dissi, piangendo.
Mi misero un grosso cerotto e tornammo a casa. Almeno per quel giorno,
avrei saltato la lezione.
La macchina di papà spuntò dalla curva che cominciava a far sera. Erano
passati due giorni da quando i carabinieri avevano portato Renzo a
Verbania, e finalmente avevano deciso di rilasciarlo. In attesa che si
facesse il processo.
Prima ancora che entrasse nel cancello, già stavo in fondo alle scale
per poterlo abbracciare.
Mi accorsi ben presto che la gente del paese aveva emesso una sentenza
ben prima che il tribunale emettesse la propria.
Renzo era stato giudicato colpevole e condannato all’isolamento.
Quando attraversava il paese, di ritorno dai prati dove si faceva il
fieno, le persiane delle case si chiudevano improvvisamente. La gente
cambiava strada, se lo incontrava. Le donne stringevano forte la borsa
sotto il braccio. Gli uomini abbassavano la visiera del cappello, per
non salutare.
Renzo faceva finta di niente, ma si vedeva che soffriva. Aveva provato a
cercare un lavoro, ma nessuno era disposto a fidarsi di lui. Un tale
Vivenzi, un vecchio che viveva al margine del bosco con un paio di
mucche e una decina di conigli, cercava da tempo qualcuno che desse una
mano per spazzare la cascina e fare la legna. Nessuno si era presentato,
perché sono lavori pesanti. Renzo lo aveva fatto. E il vecchio aveva
accettato.
Neanche due giorni dopo gli disse di andare via, nonostante si vedesse
bene che era contento del lavoro fatto.
Sapemmo poi che qualcuno aveva minacciato di ammazzargli i conigli,
avesse continuato a dare lavoro a quello che chiamavano “il
delinquente”.
L’atteggiamento della gente non cambiò neppure quando gli autori del
furto vennero scoperti. Si trattava di due balordi, pescati poco tempo
dopo a rubare in una casa utilizzando la tecnica di smontare le
serrature.
Con il passare del tempo imparammo a convivere con questi pregiudizi.
Non credo che la gente lo facesse per cattiveria. La questione era che
di droga si parlava, talvolta anche a scuola, ma tutti lo consideravano
un problema della grande città. Sapere che era già arrivato in paese
faceva paura. Così, ognuno cercava di difendere la propria famiglia
reagendo in quel modo.
In fin dei conti, ciò che importava davvero era poter stare insieme.
Mamma, papà, nonna, Renzo e io.
Certo, mamma aveva smesso di frequentare la parrocchia per non sentire i
pettegolezzi delle comari, che iniziavano a bisbigliare ogni volta che
la vedevano arrivare. Pure papà non andava più a giocare alle carte, il
sabato sera.
Così, ce ne stavamo tutti insieme a guardare la televisione o a parlare.
A volte, si cantava. Altre, nonna cominciava a raccontare della guerra e
dei partigiani. Papà allora andava a dormire, perché quelle storie le
conosceva bene e lo annoiavano. Io, invece, sarei rimasto alzato tutta
la notte ad ascoltarle.
Quell’anno la neve arrivò prima del solito. Già a metà novembre, un
manto bianco spesso quasi mezzo metro cambiò i colori delle cose
uniformando il paesaggio in un’unica tonalità bianca.
E andò avanti così per giorni, al punto che, i primi di dicembre, il
sindaco emise un’ordinanza di chiusura delle scuole.
Credo sia stato uno dei periodi più belli della mia vita.
Insieme a Renzo si andava a correre con la slitta, si facevano pupazzi,
si combatteva a palle di neve. In quei momenti, l’ostilità del paese era
come se non esistesse. Ero forse l’unico bambino a non avere amici, a
non poter giocare a pallone con gli altri, a non essere chiamato per le
feste di compleanno. Però c’era Renzo con me. E lui valeva più di tutti
gli altri messi insieme.
Ciò che sulle prime era parsa una gradita sorpresa, con il passare delle
settimane cominciò a diventare un problema.
La grande massa di neve impediva alle auto di circolare, ma pure la
corriera, giù in pianura, era spesso bloccata. Così, papà non poteva
andare al lavoro.
Spesso gli uomini del paese si trovavano a casa dell’uno o dell’altro
per liberare una stalla, per riparare un tetto crollato o per aiutare un
anziano in difficoltà. Anche papà ci andava, pur se nessuno veniva mai a
chiamarlo.
Nevicò talmente tanto che dovetti rinunciare a fare l’albero di Natale
sul pino che tutti gli anni addobbavamo con le palline luminose. Così,
mamma comprò un piccolo alberello da tenere in casa, vicino al camino.
Non era proprio la stessa cosa, ma per quell’anno avrei cercato di
accontentarmi.
Era la notte di Natale. Non lo potrò mai dimenticare.
Quella che avrebbe dovuto essere la notte più bella dell’anno, si rivelò
piena di incubi, di urla, di draghi con la lingua di fuoco e di persone
malvagie. Una di queste prese a rincorrermi con un coltello. Per quanto
corressi forte, riuscì a raggiungermi e a colpirmi. Mi svegliai
bruscamente, e mi accorsi che le urla c’erano davvero. Che la gente
correva davvero. La luce della cucina attraversava il corridoio e si
infilava sotto la fessura della porta.
Mi precipitai di sotto. Mamma stava chiudendo il bavero della giacca a
vento di Renzo. Papà stava allacciando gli scarponi. Nonna era in un
angolo, preoccupata.
«Che state facendo?» chiesi, stropicciando gli occhi. «è già ora di
colazione?»
«Torna a dormire» intimò mamma. «è notte fonda. Papà e Renzo devono
uscire. Tu torna a dormire.»
«Come, devono uscire? Che cosa è successo?» Corsi alla finestra e
sbirciai attraverso le persiane. Sulla strada la gente correva e urlava.
Tutti in un unica direzione. Verso la curva. «Si può sapere cosa sta
succedendo?» tornai a chiedere. Fu nonna a dirmelo.
«è caduta una valanga, su all’albergo. Stanno andando ad aiutare quegli
sventurati. Lo dicevo che la temperatura era troppo alta, per essere
dicembre. Lo dicevo.»
L’albergo! “La Stella dei Monti” era pieno di turisti, in quel periodo.
Arrivati per le vacanze di Natale. Avrebbe potuto essere un disastro!
Feci credere a mamma che sarei andato a dormire. Sgattaiolai in cantina,
indossai gli scarponi e la giacca a vento e mi mischiai alla gente che
andava verso l’albergo.
Quando arrivai, rimasi a bocca aperta. Una parte dell’edificio era
crollata. I fari dei pompieri illuminavano la scena come fosse giorno.
Tutt’intorno, gente che piangeva, auto distrutte, maglioni e sci sparsi
sulla neve. La scuola, posta proprio di fianco, era invece solo stata
sfiorata dalla valanga. Non posso dire che la cosa mi facesse piacere.
Vidi decine di persone scavare nella neve. Altre, spostare travi. Altre
ancora, urlare e correre senza una ragione apparente.
Si udivano pianti, urla, lamenti.
Ebbi l’impulso di scappare a casa, inorridito. Ma qualcosa mi impedì di
farlo. Restai impietrito a guardare, a sperare che fosse solo un brutto
sogno.
Poi, me ne accorsi. C’erano altre persone, più a valle. E un altro
edificio crollato. Evidentemente, la corsa della slavina non si era
arrestata contro i muri dell’albergo, ma aveva proseguito travolgendo
una casa posta un centinaio di metri più sotto, in direzione del centro
del paese. Sapevo bene di chi era quella casa, perché ogni volta che
passavo di là facevo bene attenzione a evitarla.
D’un tratto, sentì una voce che urlava “corriamo dai Ceretti, qui ci
pensano i pompieri. Per fortuna, non è rimasto sotto nessuno”. In
effetti, la valanga aveva distrutto solo la parte laterale dell’albergo,
nel punto dove si trovava la sala del ristorante, deserta a quell’ora
della notte. Le camere, invece, non erano state toccate.
Nascosto dietro a un pilastro, riconobbi Renzo e papà correre insieme
agli altri. In un momento tanto drammatico, evidentemente, la paura di
stare gomito a gomito con un drogato era stata messa da parte.
Quando tutti furono passati, presi a correre nella stessa direzione. Non
posso dire che il Ceretti mi fosse simpatico, ma mi sarebbe comunque
spiaciuto gli fosse successo qualcosa.
La scena che mi si parò davanti, credo mi resterà scolpita nella mente
fino all’ultimo dei giorni.
La casa dei Ceretti non c’era più. Solo un mucchio di rovine. Sassi, uno
sull’altro. Resti di mobili, attrezzi da lavoro, scarpe. Degli
occupanti, neppure l’ombra.
Qualcuno cominciò a scavare, ma ci si accorse ben presto che la grossa
trave centrale che sosteneva il tetto stava in bilico, appoggiata
all’unico muro rimasto intero. Avrebbe potuto crollare da un momento
all’altro e trascinare con sé quanto ancora si reggeva in piedi.
«State zitti!» urlò un uomo. La gente smise di parlare. Arrivarono
nitidamente dei flebili lamenti. Sotto le macerie, qualcuno era
sopravvissuto. Mi ricordai di essere stato dai Ceretti una volta, quando
ancora Renzo non era tornato a casa. Le camere da letto, come del resto
gli altri locali, stavano nel seminterrato. Al piano di sopra ci
tenevano il fieno, che in effetti si vedeva sparpagliato tutt’intorno.
Quindi, avrebbero potuto essersi salvati.
«Dobbiamo fare in fretta, prima che venga giù tutto» urlò qualcuno. «Se
crolla quella trave, sono spacciati.»
Due uomini tornarono ad avvicinarsi alle macerie, ma nell’istante in cui
provarono a spostare un pezzo di muro, la trave scricchiolò
paurosamente.
«Mio Dio! Rischiamo di farli morire, se spostiamo qualcosa. Non possiamo
fare niente. Ci vuole una gru che sollevi quella maledetta trave.
Qualcuno chiami i pompieri!»
«Non possiamo aspettare. Ogni minuto che passa potrebbe essere l’ultimo.
Se non sono ancora morti, è perché la trave regge sulla testa di quei
poveracci quel che resta della casa. Bisogna trovare il sistema di
tirarli fuori. Subito!»
Furono i vicini di casa dei Ceretti a lanciare l’idea.
«Qualcuno potrebbe infilarsi sotto la trave e, attraverso la botola che
comunica con il piano sottostante, portare soccorso a quegli sventurati.
Può essere che, uno alla volta, si riesca a tirarli fuori.»
La cosa avrebbe voluto dire rischiare di rimanere sotto per sempre. E
questo era ben chiaro a tutti. Tant’è che nessuno commentò la proposta.
Anzi, si cercò di ignorarla.
Alcuni uomini provarono ancora ad aprire un varco tra le macerie, e
ancora la trave minacciò di cadere.
«Vado io.»
Ci fu un silenzio generale, che si trasformò presto in brusio.
Mi si gelò il sangue nelle vene. A quel punto non riuscì più a stare
nascosto e mi precipitai verso la folla.
«Renzo, no, non lo fare, ti prego!»
Qualcuno si voltò verso di me. Cercai di scansare i presenti per poter
raggiungere mio fratello. Ma, all’improvviso, due braccia forti mi
sollevarono di peso.
«Che ci fai, qui?» chiese l’uomo. Riconobbi la voce di mio padre. «Torna
immediatamente a casa.» Si girò verso un gruppetto fermo a discutere,
poco più in là. «Qualcuno porti a casa questo ragazzino» tornò a urlare.
Un uomo ci venne incontro e mi prese in braccio. Cercai di scalciare e
di liberarmi, senza riuscirci. Feci solo in tempo a vedere la sagoma di
Renzo arrampicarsi sulle macerie e sparire sotto la trave, tra lo
sgomento e il silenzio dei presenti.
Persi i sensi dal dispiacere.
Mi svegliai che il sole era già alto. Mamma doveva avermi riempito con
una delle sue tisane di erbe, che servono sia per farti dormire che per
correre al bagno.
Appena ebbi la cognizione di quanto fosse successo, presi a urlare il
nome di mio fratello. Mamma non tardò a precipitarsi in camera. Mi diede
un bacio sulla fronte.
«Buon Natale, Giuseppe.»
«Renzo! Dov’è Renzo? Dov’è?»
«Calmati. Dove vuoi che sia? È da basso che ti aspetta. Tutti quanti
stiamo aspettando solo te per aprire i regali. Lo sai che è quasi
mezzogiorno e che hai saltato la messa? Così ti toccherà andarci
stasera.»
«Davvero Renzo è giù con voi?» domandai, incredulo.
«Dove dovrebbe essere? Dai, muoviti.»
Cominciai a pensare di avere sognato. La valanga, la casa dei Ceretti,
la trave scricchiolante. Che mi fossi inventato ogni cosa?
Quando arrivai di sotto, il camino era acceso. Sotto l’albero che mamma
aveva preparato al posto del grande pino, una montagna di pacchi
colorati attendevano i legittimi proprietari.
«Che è successo stanotte?» domandai a Renzo.
«è nato Gesù.»
«Certo. Ma è successo anche dell’altro...»
«Cosa intendi dire?»
«La valanga, la casa dei Ceretti, i pompieri....»
Si avvicinò e mi tirò i capelli.
«Se non la finisci di riempirti di dolci tutte le sere, altro che
pompieri.... Finirà che ti sogni i dinosauri!»
Lo guardai, allibito. Dunque, mi ero sognato ogni cosa? Non c’era stata
alcuna valanga?»
«A tavola!» urlò mamma. «Penserete dopo ai regali.»
Non riuscimmo neppure a sciogliere i tovaglioli. Qualcuno bussò alla
porta. Papà andò ad aprire.
Era il signor Casati, parente stretto dei Ceretti. Li sentì confabulare
per un paio di minuti. Poi l’uomo se ne andò.
Papà entrò in sala con due bottiglie di vino e le appoggiò alla base
dell’albero.
«Cosa sono?» domandai.
«A giudicare da ciò che si vede, sembrerebbero due bottiglie. Penso si
tratti di un regalo.»
«Un regalo? Un regalo di chi? Dei Casati? Ma se non ci parlano neppure!»
Bussarono un’altra volta. Si ripeté la scena. Questa volta era la
signora Giuliana, che viveva in centro al paese. Ancora una volta, babbo
tornò con un regalo, che nella circostanza era una piccola forma di
formaggio.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» domandai, sconcertato. Mi accorsi
che nonna stava a sbirciare dalla finestra. Si voltò. Scorsi un grande
sorriso sul suo volto.
«Vieni a vedere» bisbigliò, facendo un cenno con la mano. Mi precipitai.
Ciò che apparve ai miei occhi in quel momento non potrò mai
dimenticarlo. Un giorno lo racconterò ai miei figli, e poi ai nipoti.
In mezzo alla neve, decine di persone stavano pazientemente in fila
lungo la strada. La coda, che partiva dal cancello di casa nostra,
arrivava fino alla curva e poi spariva alla vista.
Non capì immediatamente cosa stesse succedendo. Vidi Renzo alzarsi e
andare alla porta. Mi avvicinai. E finalmente tutto fu chiaro.
«Volevo chiederti scusa, Renzo, per come ti abbiamo trattato. A nome mio
e di tutta la famiglia. Volevo dirti che, d’ora in avanti, sarai sempre
il benvenuto.» Anch’egli lasciò un regalo, probabilmente preso dalla
cantina di casa all’ultimo momento.
Solo alle quattro riuscimmo a mangiare qualcosa. Pensando a tutti gli
abitanti del paese, non credo ce ne fosse uno che avesse rinunciato a
domandare scusa a Renzo e a complimentarsi con lui per l’altruismo
dimostrato.
Seppi poi che i Ceretti si erano salvati e stavano bene perché Renzo era
riuscito a portarli fuori uno alla volta. Neanche mezz’ora più tardi, la
casa era crollata completamente, ma la solidarietà del paese l’avrebbe
ricostruita più bella di prima.
Mio fratello aveva dovuto rischiare la vita per dimostrare quanto
valeva. E per dimostrare che un uomo può sbagliare, ma non per questo
deve essere dimenticato da tutti. Specie se ha deciso di cambiare.
*******
Sono passati molti anni, ma ogni tanto mi fermo ancora davanti a quella
finestra, ripensando a un meraviglioso Natale trascorso a guardare il
paese sfilare lungo la strada e sparire dietro la curva.
|
Era la mamma, lo
stava chiamando dalla cucina per la colazione. Probabilmente strillava
già da un po’, e senza ottenere risposta, dato il tono di rimprovero del
suo “Federico allora vuoi alzarti o no?”. Ma Chicco se ne stava rendendo
conto solo ora, e non senza difficoltà, ancora parzialmente intrappolato
nel bellissimo sogno di poco prima, nel quale la voce della mamma
arrivava alle sue orecchie addormentate come il verso, simile a uno
strano muggito, del tarabuso.
Ad ogni modo, per evitare l’incombente sgridata, si alzò dal letto
scrollando la testa, con l’intento di scrollare via anche gli avanzi di
sogno, andò di corsa al lavandino a sciacquarsi la faccia e fece giusto
in tempo a sedersi davanti alla tazza di latte tiepido e ai biscotti al
cioccolato prima che la mamma, ancora intenta ai fornelli, si girasse
per l’ultima volta a controllare che fosse finalmente arrivato… “’Giorno
‘ma”. “Ciao tesoro. Dormito bene?”. E Federico di nuovo era lì, con un
mezzo biscotto inzuppato in mano e l’altra metà che ricadeva
fragorosamente nella tazza schizzando di latte tutt’intorno. Le
goccioline biancastre si trasformavano davanti ai suoi occhi trasognati
nelle piccole esplosioni liquide provocate dalle zampe degli aironi
cinerini in fase di atterraggio nelle lanche del Ticino. Sembrava
proprio che il destino riservatogli per quel giorno fosse di rivivere a
occhi aperti il meraviglioso sogno della notte prima, e lui non aveva
intenzione di sforzarsi troppo per resistergli. “Dormito bene, ho
detto?”, e la voce della mamma a quel punto era a un passo dal salto di
tonalità che lui conosceva molto bene e che precedeva di qualche
centesimo di secondo l’urlata furibonda. “Eh? Sì, scusa…, sai, ho fatto
un sogno bellissimo… ero giù in vallata con Kirill, sai, come quella
volta che noi due eravamo andati a fare il bagno alla cava, sai, ma
stanotte noi eravamo là al passaggio di migliaia di uccelli che
cercavano l’acqua per bere, lavarsi, rinfrescarsi dalla calura estiva,
c’era un frullare d’ali incredibile, e si lasciavano anche
accarezzare…”.
“Accidenti Chicco, sarà già il centesimo sogno di acqua, sole, estate,
uccelli, parco che fai… Non sarebbe ora di pensare anche ai compiti
delle vacanze? Va che tra un po’ ti sognerai anche quelli, anzi, avrai
degli incubi tremendi al riguardo se non li finirai prima di tornare a
scuola!”.
Come al solito, la mamma aveva ragione. La scuola sarebbe ricominciata
tra meno di due settimane e bisognava davvero sbrigarsi. Una fugace
visione della professoressa Cragnotti e del preside La Secchia gli era
balenata davanti agli occhi… Mai come quell’anno Chicco si sentiva
terrorizzato all’idea di trascorrere gran parte delle giornate seduto
con la testa china a scrivere e leggere e ascoltare noiose teorie
matematiche e racconti di storie lontane da lui mille e più anni. Mai
come in quel momento aveva voglia di vivere le sue di avventure, di
scoprire nuovi paesaggi e piccole creature nascoste nelle cortecce e tra
l’erba, piuttosto che tra le pagine patinate dei libri di testo. Proprio
come aveva fatto per quasi tutta quell’estate, la più bella che si
ricordasse da quando era nato.
Era l’inizio di gennaio di quell’anno e un venerdì sera, appena finita
la cena, Chicco come al solito chiese di potersi alzare per andare ad
occupare il posto migliore sul divano e spaparanzarsi in attesa del
filmone, mentre mamma e papà sparecchiavano e lavavano i piatti in
cucina. Del tutto inaspettata, la risposta fu “No, stai seduto ancora,
per favore. Papà ed io ti dobbiamo parlare.”. A seguire, un gioco di
sguardi tra i genitori che Chicco non riuscì a decifrare. Gli agnolotti
al pesto appena mangiati gli si bloccarono immediatamente nell’esofago e
sembravano quasi voler tornare indietro. Mentre una sinistra sensazione
di gelo gli si diffondeva per tutto il corpo, la sua mente andò alla
pessima interrogazione di storia del giorno prima, ma loro non ne
potevano sapere ancora niente… o forse si trattava del graffio sulla
portiera, che però pensava di avere quasi del tutto cancellato… “Oh
cavolo non sarà mica per la storia del cellulare nel water…?”. Ma non
fece in tempo a formulare completamente quell’ultimo pensiero, che il
papà, dopo essersi schiarito la voce come da copione, attaccò: “Federico
– e già sentirgli pronunciare il suo nome per intero aveva qualche cosa
di estremamente insolito – è da tempo che la mamma ed io volevamo
parlarti di questa cosa e ci sembra che sia arrivato il momento giusto.
Ti abbiamo sempre detto che ci sarebbe piaciuto darti un fratello…o una
sorella…” Federico interruppe le serie parole di papà e urlò, tra il
divertito e lo spaventato: “Non ci posso credere! Mamma, sei incinta? Ma
dai, non ci posso proprio credere… e alla cameretta avete pensato? E
come lo chiamerete? Ma quando arriverà? La play comunque rimane mia, e
anche la bici rossa… Ma scusa mamma non ti si vede neanche un po’ di
pancione!”.
“Calmati amore, non saltare alle conclusioni... in effetti non sono più
così giovane e comunque non avevamo pensato a un piccolino strillante.
Ecco, se ci lasci parlare ti spieghiamo meglio”.
E fu così che Federico venne a sapere dai suoi che dopo qualche mese
sarebbe entrato in casa sua non l’essere indifeso e lagnoso che già
aveva un’immagine precisa nella sua testa di bambino - e alla quale
dovette rinunciare inaspettatamente a malincuore - bensì un ragazzino
all’incirca della sua età, undici anni, di cui ancora non si conosceva
il nome, che proveniva da un Paese mai sentito prima – la Bielorussia- e
che si sarebbe fermato solo per un mese.
“Cosa cosa cosa? Scusate ma non potevate dirmelo prima?Avete deciso come
al solito tutto voi, se ho ben capito dovrò condividere la mia camera
per trenta giorni con uno sconosciuto! Che non parla la mia lingua! Si
può sapere perché?!?”
Papà e mamma, che conoscendolo da un bel pezzo avevano previsto la
reazione brusca del loro caro figliolo, si armarono di santa pazienza e
con grande semplicità gli spiegarono che “La zona della Bielorussia -
Sonia sembrava aver studiato a memoria la parte - che si trova vicina al
confine dell’Ucraina è stata contaminata, diversi anni fa, dalle
radiazioni fuoriuscite dalla centrale atomica di Chernobyl. Le
conseguenze di quell’incidente fanno ancora oggi ammalare migliaia di
persone, soprattutto bambini, costretti a mangiare cibi radioattivi e a
respirare quell’aria… inquinata. Pare che trascorrere almeno qualche
settimana all’anno lontano dalle terre contaminate avendo a disposizione
regolarmente cibi freschi e genuini sia di grande aiuto per le persone
che, per diversi motivi, non possono andare a vivere lontano dalle zone
contaminate…”.
A Federico il nome di Chernobyl diceva qualcosa: “Ma sai che a scuola la
prof. Saporelli ci ha parlato proprio di quella centrale atomica che
ebbe un incidente… le ho viste, sul libro di storia, quelle foto di
terre abbandonate… sì, c’era anche la foto di un ospedale mi sembra… con
bambini senza capelli…”.
“Purtroppo infatti ad ammalarsi ancora oggi, come ti dicevo, sono
proprio i più piccoli…Vedi, ci hanno detto il bambino che starà con noi
abita a Zhlobin, nel sud della Bielorussia. Lui sta benissimo, lo
ospiteremmo a casa nostra proprio per evitare che si possa ammalare in
futuro. Capisci? Comunque rilassati, non dovrai condividere, come hai
detto tu “con uno sconosciuto” le tue cose a lungo, lui farà da noi una
specie di vacanza estiva, tutto qui. A casa ha le sue, di cose, e la sua
famiglia. Ci abbiamo pensato bene, il papà e io, e ci è sembrato che
ospitare un bambino per un mese sia uno sforzo davvero piccolo in
confronto ai benefici che potrebbero derivare… Tu che cosa ne pensi?”.
“Beh, messa così, la cosa non suona poi tanto male…”.
“Sarebbe bello anche per te, Chicco. Noi ormai siamo un po’ …come dire…”
il papà non trovava la parola giusta…
“Bacucchi?” fortunatamente Chicco aveva il dono della sintesi.
“Sì, ecco, più o meno quel che volevo dire… siamo un po’ “bacucchi” per
occuparci di un bambino a tempo pieno. Per un mese però ce la possiamo
fare, non è che siamo proprio da buttare via… il nostro ospite assaggerà
i manicaretti della mamma e respirerà aria buona e tu… dovrai lasciare
un po’ di spazio quando ti spaparanzerai sul divano! A proposito, adesso
vai pure, che il film starà per iniziare”.
Federico si gustò la visione di “Indiana Jones e il drago nepalese” in
totale relax, Giovanni e Sonia non sapevano che cosa pensare: la
notizia, che credevano avrebbe in un modo o nell’altro scosso Federico,
in realtà sembrava averlo lasciato quasi del tutto indifferente. Finito
il film, diede la buonanotte e come sempre si tuffò nel suo letto
chiedendo il permesso di leggere almeno un capitolo di “Harry Potter e
la scimitarra thailandese”.
“ ‘Notte pa’, ‘notte ma’ ”.
“’Notte Chicco, a domani”.
Forse i genitori non lo conoscevano poi così tanto bene, il loro piccolo
adolescente… Quella notte infatti Federico si girò e rigirò e girò
ancora nel letto pensando a quel ragazzino, se lo figurava alto alto,
con i biondi capelli a spazzola e dei muscoli potenti da far paura, tipo
l’avversario di Rocky Balboa che diceva “Ti spiezzo in due”. Dopo un
minuto invece diventava un tipo mingherlino, con gli occhiali spessi,
antipaticissimo e schizzinoso. Sapeva in cuor suo che, come aveva detto
la mamma, trenta giorni non erano poi molti, ma si trattava comunque di
un affare serio…
Ad ogni modo nelle immagini che quella notte precedettero il suo
addormentamento totale, Chicco vide tra le altre cose delle epiche sfide
a ping pong, a calcetto e briscola all’ultimo sangue, senza contare
mitiche partite a scacchi, naturalmente.
La mattina dopo, ancora sotto al piumone giallo, tese l’orecchio e
ascoltò i consueti rumori di mamma e papà che, tra uno sbatacchiare di
porte e uno sciabattamento, si preparavano per andare a fare la spesa
settimanale al supermercato. Aspettò lo “sbam” finale del portoncino
d’ingresso, lo scricchiolio della ghiaia sul vialetto e finalmente si
trascinò giù dal letto: senza nemmeno dare retta ai brontolii dello
stomaco che reclamava la colazione regolamentare, Federico andò dritto
dritto alla libreria dello studio e, ancora avvolto dal piumone, iniziò
la sua ricerca: “Balistica, belato, biacca…Bielorussia!”; trovò
rapidamente quello che cercava sulla polverosa Enciclopedia Universale
Treccioni. Gliela aveva regalata il nonno Umberto per i suoi otto anni,
ma a quanto gli pareva di ricordare, quella era la prima volta che
consultava uno dei volumoni rossi. Di quel regalo aveva apprezzato
soprattutto il gadget allegato, la fantastica play station ultra
accessoriata di livello trentatré. Lesse sull’aggiornatissima
Enciclopedia che il curioso nome di quella lontana nazione significa
“Russa Bianca”, che la sua capitale è Minsk, che si parlano il russo e
il bielorusso, che si coltivano soprattutto lino e patate, che il fiume
Dnepr è molto importante, che praticamente non ci sono montagne, che la
moneta è il rublo bielorusso, che Zhlobin è vicina alla città di Gomel e
possiede una importante acciaieria.
“Cavolo! – disse a voce alta Chicco chiudendo con un botto il librone –
Io manco sapevo che esisteva, questo posto! E non è neanche così
piccolo!”. Il passo successivo fu di andare in ripostiglio per
recuperare la scala e poi di arrampicarsi su su fino all’ultima mensola
dello scaffale del soggiorno: portare giù il pesante mappamondo luminoso
non fu semplice come previsto, Chicco rischiò almeno due volte di
scivolare e di ridurre a frittella, oltre che il globo, anche il suo
sedere… fu solo la fortuna a farlo atterrare su due piedi dopo lo
scivolone sull’ultimo piolo. “Bum!”, il parquet rimbombò fragorosamente.
Appoggiò con religiosa attenzione il mappamondo sul tappeto – si
trattava pur sempre di un reperto antico, usato già da sua madre quando
frequentava le scuole elementari – vi si sdraiò di fronte, soffiò via la
polvere, tossì e lo scrutò. Aveva un’idea vaga della collocazione
geografica della Bielorussia, però dopo quasi venti minuti di ricerca e
con il dito indice bollente a forza di essere strofinato sulla
superficie rugosa della terra in miniatura, gli venne un sospetto…
Riprese il volumone rosso, lo riaprì e, leggendo con maggiore
attenzione, finalmente capì: la Bielorussa si era resa indipendente
dall’Unione Sovietica nel 1991, perciò sul mappamondo antidiluviano non
aveva trovato traccia dei suoi confini… Ma di Minsk e di Gomel,
comunque, si fece un’idea. Stavano in mezzo a paesi dai nomi
impronunciabili - come se in quei posti le vocali fossero un optional e
la zeta e la erre la facessero da padrone - e comunque, a vederla
dall’alto, Gomel non era così lontana da Oleggio, e dalla sua casa! In
fin dei conti, il Mar Rosso dove era appena stato in vacanza con i suoi
era lontano due spanne della sua mano, Gomel invece soltanto una.
Quest’ultima considerazione, non sapeva bene perché, ma lo rassicurò
moltissimo. Federico decise che per quel giorno poteva bastare e andò a
rimettere il Treccione al suo posto, e la scala pure.
Dopo quella full immersion nell’esotico mondo bielorusso, Federico
ritenne di saperne abbastanza e per qualche tempo, davvero non ci pensò
più. Occasionalmente, se notava sui giornali di papà e mamma qualche
notizia interessante o qualche immagine, la ritagliava per metterla da
parte. Una volta era dal parrucchiere per il consueto taglio-a-zero,
considerato da Sonia l’unico valido metodo anti-pidocchio, e gli capitò
di leggere un bell’articolo sulla rivista “Miao Bau Animali dal mondo”
che parlava del bisonte bielorusso delle foreste di Beloveza. “Wow –
pensò – magari Lui ne ha visto uno dal vero! Forse lo ha anche
accarezzato!!!”. Un’altra volta, dal dentista, si mise in tasca un
“Topolino” con alcune foto dei peluches… prodotti nella celebre fabbrica
di Zhlobin! Quelle immagini gli rimasero scolpite nella memoria perché,
per parecchio tempo a venire, le avrebbe associate a ciò che accadde
subito dopo il “furto”: il dentista gli mise l’apparecchio, vero e
proprio strumento di tortura moderno fonte di tanti dolori e imbarazzi.
Oltre che di un sospirato sorriso… diritto!
La volta che Federico riprese in mano il suo speciale diario – si
trattava di un quadernetto ad anelli con la copertina juventina – e
sfogliò le pagine ritrovando le foto dei bielo-peluches e dei bisonti
della foresta erano passati ormai quattro mesi, canini e incisivi
iniziavano ad assumere un aspetto umano e… il bambino sconosciuto, “Lui”
nella mente di Chicco, stava finalmente per arrivare.
Giovanni, Sonia e Federico avevano avuto dall’associazione che si
occupava dell’organizzazione del viaggio un fascicoletto, in tutto otto
pagine fotocopiate, in cui si trovava il minimo indispensabile per
attaccare bottone e comunicare con gli ospiti: per qualche settimana,
tutte le sere, a cena la tele rimaneva spenta e i tre tra un boccone e
l’altro ripassavano: “ Ciao?” “Pokà, oppure privièt”.
“Arrivederci?”,” Do svidànija”;
“Buonanotte?”, “Spokòjnoj nòci”;
“Bello?”, “Krasìvyj”;
“Grande?”, “Bolsciòj”
“Nonna?” , “Bàbushka….
E così via, fino allo sfinimento. La mamma soprattutto sembrava avere
una memoria di ferro e se la cavava benissimo.
Oltre al fascicolo, durante una di quelle sedute di russo ricevettero
una telefonata con l’informazione che Federico attendeva: il bambino che
avrebbero conosciuto di lì a poco si chiamava Kirill ed era nato a
Zhlobin il primo maggio di undici anni prima.
Federico, grazie a quelle poche notizie, si fece un’idea più precisa del
soggetto: Kirill, nome spigoloso, doveva aveva certamente i capelli
neri e un carattere tremendo, un vero testone, dal momento che era un
Toro. Rifletté anche sul fatto che facilmente loro due si sarebbero
presi a cornate, dal momento che il suo, di segno, era quello
dell’Ariete... questa riflessione lo fece sorridere un poco.
Si avvicinava il momento dell’arrivo, Federico stava frequentando gli
ultimi giorni di scuola e aveva ricevuto dalla mamma l’ordine perentorio
di sgombrare qualche cassetto del suo armadio per fare spazio ai vestiti
di Kirill. Lui così fece, covando in segreto anche un pizzico di
gelosia, liberando gli spazi più alti del mobile, dal momento che
l’ospite a quel punto nella sua testa aveva assunto le sembianze di un
ragazzone robusto, sicuro di sé, taurino. “Kirill”, appunto.
Gli ultimi preparativi misero a dura prova la pazienza di Federico e del
papà: Sonia sembrava un’invasata: "Ma sarò all’altezza? – ripeteva in
continuazione come in una noiosissima nenia – La casa è abbastanza
pulita? E se non gli piace quel che cucino? Ho comprato il dentifricio?
E se si ammala mentre è qui? Se scappa e non lo troviamo più?” e via di
seguito in una serie di domande più o meno assennate alle quali i due
maschi di casa smisero presto di rispondere.
Alla fine, il giorno giunse. Era una domenica mattina, le famiglie che
avrebbero accolto i dodici bambini – di cui solo cinque maschi, aveva
notato Federico – si erano date appuntamento sul piazzale della Stoop,
il supermercato del paese. Sapevano che l’aereo da Minsk era partito
regolarmente, di lì a poco sarebbe arrivato il pullman. Chicco scrutava
i visi degli altri, capendo senza difficoltà che quelli più rilassati
appartenevano a persone abituate al procedimento, che già conoscevano il
loro bambino e, dagli occhi lucidi, che non vedevano l’ora di
riabbracciarlo. I più tirati, invece, con una specie di sorriso di
plastica, erano i nuovi, come lui e i suoi. Fingevano noncuranza, dentro
covavano il desiderio di darsela a gambe, combattuti tra la voglia di
conoscere e finalmente abbracciare il loro piccolo ospite e la paura
dell’ignoto. Nonostante tutto, lui si sentiva tranquillo, calmo, a suo
agio… o almeno così credeva. Non appena una voce si levò dal gruppo per
dire “Eccolo, stanno arrivando!” infatti, il suo cuore cominciò a
pulsare all’impazzata e un intero branco di cavalli iniziò a galoppargli
nel petto mozzandogli letteralmente il fiato.
Il pullman svoltò e dopo aver fatto manovra si fermò. Era a due passi da
lui, dietro ai finestrini Federico intravide una serie di volti,
indistinti per i riflessi del vetro. Le figure là dentro si mossero,
alzandosi ordinatamente dai sedili, si misero in fila e… iniziarono a
scendere. La prima che vide fu una bambina, sembrava veramente piccola,
avrà avuto sì e no sette anni. Bionda, anzi biondissima, con uno
zainetto sulle spalle e l’aria completamente sperduta. Non appena scesa,
una signora corpulenta le andò incontro strizzandola tutta e Federico la
perse di vista. La seconda a scendere fu un’altra bambina, biondissima
anche lei, di cui Chicco notò subito i bellissimi occhi azzurri,
sgranati per l’emozione. Anche lei fu accolta immediatamente da
un’anziana coppia che parlava abbastanza bene il russo. Poi fu la volta
degli altri, altri due bambini, tre bambine che si tenevano per mano e
non volevano mollarsi per niente al mondo, ostruendo il passaggio. In
piedi dietro di loro, ad aspettare senza scomporsi che il groviglio
umano si sciogliesse, c’era Kirill: non che Federico avesse alcuna dote
telepatica, semplicemente quel bambino aveva in testa un vistoso
cappello rosso con visiera e, per l’appunto, la scritta “Kirill”
ricamata in nero. E lui che si era tanto arrovellato su come avrebbe
fatto a riconoscerlo!
Siccome il cervello di Federico pareva essersi scollegato dalle gambe,
che rimanevano inchiodate sull’asfalto, ci pensò il papà a farlo muovere
in direzione di Kirill, con una spallata che quasi lo sollevò da terra.
Inspiegabilmente quando i due si avvicinarono Sonia era già lì, e Chicco
rimase convinto per tutta la vita che in quell’occasione sua madre
avesse usato il teletrasporto. Non solo, gli si stava rivolgendo in
russo con una certa dimestichezza della lingua! A pranzo Sonia avrebbe
confessato di aver preso in gran segreto lezioni di russo per cinque
mesi dalla “badante” della nonna Irene, mentre tutti la credevano al
corso di ballo latino-americano. “Già mi credevate una povera pazza –
avrebbe ammesso – figuriamoci se vi avessi detto del russo! Mi avreste
preso in giro per un anno intero”. Infatti. Benché la scelta di Sonia si
fosse rivelata utile, per un bel pezzo in casa le venne appioppato il
simpatico soprannome di “bella balalaika”.
Comunque, Kirill adesso era lì per davvero. Federico, non sapendo bene
che cosa fare, gli allungò la mano e lui, per stringergliela, appoggiò a
terra il sacchetto e la borsa che aveva con sé. Si guardarono dritti
negli occhi per un istante, Federico vide un ragazzino, alto poco meno
di lui, con gli occhi e i capelli castani come i suoi, un po’ spaventato
e goffo, proprio come lui. Per di più, dietro all’accenno di timido
sorriso, Chicco vide balenare qualcosa che riconobbe all’istante:
pazzesco, portava anche lui la macchinetta ai denti! Tutta l’ansia che
si era accumulata durante quei mesi, in un momento si sciolse, Chicco se
ne rese conto e realizzò finalmente che Kirill era solo un bambino.
I quattro salutarono velocemente il resto del gruppo, si sarebbe detto
in una lingua inventata che ricordava vagamente l’italiano, il russo e
l’inglese insieme. Ma forse anche il dialetto aveva il suo spazio.
Saliti in macchina, Federico e Kirill si trovarono vicini sul sedile
posteriore, e inaspettatamente fu proprio il nuovo arrivato a rompere il
ghiaccio: estrasse dal sacchetto un piccolo album e – francamente aveva
dell’incredibile – si mise a leggere una per una le ordinate didascalie
che stavano sotto a ogni fotografia: “Questo sono io con mia sorella
Alina quando eravamo di sei e quattro anni; questa è la cucina di mia
casa con frigorifero nuovo; qui sono in gita a Minsk con mia classe di
scuola; questa casa di babushka in Ucraina”. Federico rimase a bocca
aperta, tanto più che Kirill aveva letto ciò che era scritto in
caratteri cirillici. Dal sedile davanti, il visino raggiante della mamma
si girò cinguettando:”Avete capito vero, voi due testoni? Qualcuno si è
preso la briga di trascrivere in caratteri cirillici queste frasi
italiane, in modo che Kirill fosse in grado di leggerle e noi di
capirle! Che idea geniale! Sicuramente sarà stata la sua mamma!”. “Da,
màma” fece eco Kirill, che passò il resto del tempo a osservare con
attenzione il panorama fuori dai finestrini, e quando scesero dalla
macchina fece capire di avere una forte nausea. Tra mezze parole e gesti
universali spiegò ai suoi ospiti che non era abituato a usare
l’automobile e si sentiva sottosopra. Per esprimere quest’ultimo
concetto mimò un assurdo rovesciamento dello stomaco che divertì
moltissimo Federico e gli fece guadagnare un sacco di punti in simpatia.
Sonia invece era già preoccupata al pensiero che Kirill potesse essere
allergico a qualcuno dei farmaci antiemetici che stava pensando di
somministrargli… Comunque, lo prese per mano, gli fece fare un rapido
giro panoramico fuori e dentro la casa e poi lo affidò a Federico, che
gli mostrasse il bagno e la camera e lo aiutasse a sistemare le sue cose
nell’armadio. “Eccoci al dunque” pensò Chicco, e poi tutto filò liscio.
Tanto per cominciare, si accorse che gli indumenti che Kirill stava
tirando fuori dalla borsa erano più adatti all’autunno – se non
all’inverno, e gli sovvenne il nome di Russia Bianca con tutto un
panorama candido di neve – così, senza che nessuno glielo dicesse,
decise di prestare al nuovo amico la sua seconda maglietta a maniche
corte preferita, quella nera con il teschio sulla schiena, che tra le
altre cose si abbinava perfettamente al cappellino. Poi lo invitò a
cambiare le scarpe, gli pareva che potessero andare benissimo le
infradito che aveva intravisto nel sacchetto, al posto degli scarponcini
che calzava. Gli mostrò il suo letto, una brandina nuova comprata per
l’occasione che lui e papà avevano pensato di sistemare sotto la
finestra. Infine, seduto su quella stessa brandina, lo attese mentre si
dava una rinfrescata in bagno. Il viaggio di Kirill, tra autobus,
coincidenze, check in, volo e quant’altro era durato diciannove ore!
Poco dopo, di fronte a un piatto di lasagne fumanti, fu messo alla prova
il sistema ideato da Giovanni per rendere meno difficoltosa la
comunicazione: su ogni oggetto della cucina (stoviglie, posate,
bottiglie, sedie e tutto il resto) aveva appiccicato due cartellini, con
il nome corrispondente in russo e in italiano. La cosa funzionò
benissimo, Kirill sembrava divertito e sorpreso per tutte quelle
attenzioni. Ricambiò la cortesia sforzandosi di pronunciare “Bottiiia,
tovanglia, corltello”.
Riuscì addirittura a far capire che da lui, a casa sua, non ci si
ritrovava a mangiare tutti insieme per il pranzo, ma al mattino qualcuno
cucinava qualcosa e poi durante il giorno chi aveva fame, mangiava. Per
lo meno questo fu quel che Federico credette di aver capito.
Il resto della giornata trascorse senza intoppi particolari fino al
momento del bagno. Erano circa le sei quando la mamma fece presente ai
due ragazzi che sarebbe stato opportuno darsi una bella ripulita, indicò
a Kirill la doccia - dush - e poi si diresse in cucina per preparare la
cena. Circa venticinque minuti dopo le stanze della casa risuonarono di
un urlo che non si sentiva così forte dai tempi della scuola materna di
Federico: il papà, che stava sistemando l’antenna, corse a rotta di
collo giù per le scale immaginandosi già una tragedia; Federico che era
mezzo appisolato con un libro in mano si buttò letteralmente sotto al
letto. Piano piano, ne sgattaiolò fuori e si avvicinò alla porta del
bagno, dove la mamma stava ritta impietrita come una statua di sale;
Chicco raccolse tutto il suo coraggio e guardò dentro anche lui: la
schiuma aveva quasi raggiunto il soffitto, goccioloni rotondi d’acqua
insaponata rotolavano giù da tutte le pareti rosa; il tappetino e gli
asciugamani avevano tentato invano di assorbire tutta quell’umidità e
apparivano come usciti dal ciclo del lavaggio intensivo. In mezzo a
quella catastrofe, spuntava la testolina bagnata di Kirill.
Sonia, passata la crisi di nervi, contò fino a centodieci e poi, con il
suo russo maccheronico ma convincente, spiegò al ragazzo che lavarsi non
significa far esplodere il bagno e che per pulirsi adeguatamente non è
necessario svuotare tre contenitori di bagnoschiuma interi. Kirill, dal
canto suo, rispondeva “Da, da” a tutte le osservazioni, e si giustificò
dicendo che il bagno di casa sua era molto più piccolo, che gli sarebbe
piaciuto vivere tutta la vita dentro a quella vasca meravigliosa.
Federico, che di norma considerava più che sufficiente fare la doccia
una volta ogni quindici giorni, non afferrò il senso di quella
conversazione, ma fu felice di vedere che dopo la sfuriata della mamma
tutto si era messo al meglio.
Di questo episodio, i due ragazzi avrebbero riso tantissime volte nel
corso del mese che seguì, quando sarebbe bastato pronunciare la mitica
parola “myt’sja”, fare il bagno, per intendere una catastrofe cosmica.
In verità la maggior parte dei bagni, per tutto il mese la fecero non
nell’ormai mitica vasca della stanza rosa, né tantomeno nella piscina
comunale, dove il resto del gruppo bielorusso si recava quasi tutti i
giorni con gli accompagnatori e l’indispensabile interprete. Loro due,
preferivano le vecchie cave di Oleggio. Federico infatti riusciva a
trovare sempre delle scuse meravigliose, del tipo: “Devo fare una
ricerca sul germano reale”, oppure: “Non trovo l’ispirazione giusta per
la tavola di educazione artistica; credo che solo la natura mi possa
aiutare, sento che devo lavorare en plein air”, se non addirittura
s’inventava di sana pianta: “Ho letto che respirare vicino alle foglie
di carpini e querce rosse dimezza i tempi di decadimento degli elementi
radioattivi penetrati nell’organismo umano”.
Visto che l’intesa tra quei due adolescenti un po’ svitati pareva
consolidarsi di giorno in giorno, Sonia e Giovanni chiudevano un occhio,
a volte anche le orecchie e: “D'accordo, allora vai pure, ma portati
anche Kirill”, dicevano quasi all’unisono, davvero soddisfatti per la
piega che quella situazione stava prendendo.
La loro meta preferita dunque era il Parco: Kirill aveva dichiarato di
essere un abile campeggiatore, nonché esperto di fauna e flora, e ne
dava prova continuamente. Dal canto suo Federico era affascinato da quel
bambino fiero e un po’ ribelle che effettivamente, dopo esserci stato
solo qualche volta, si orientava a meraviglia nel bosco e riconosceva i
sentieri giusti meglio di lui che, si poteva dire, in quei luoghi ci era
nato.
All’inizio di tutto c’era stato il nonno Umberto: qualche giorno dopo
l’arrivo di Kirill, lo aveva invitato insieme a suo nipote a una gara di
“cerca dell’oro” alla quale doveva partecipare in qualità di cercatore
più anziano della provincia. Così, un sabato mattina, armato di pala,
trula, asse di lavaggio e carriola - strumenti indispensabili per la
raccolta del prezioso metallo – il ben assortito trio si recò sul greto
del Ticino, vicino all’abitato di Cameri. Si diedero da fare fino a sera
a setacciare sabbia, scandagliare gli argini, trasportare materiale,
sciacquare… purtroppo tutta quella fatica non gli valse neppure una
pagliuzza d’oro, comunque il divertimento fu assicurato, insieme ad una
invidiabile abbronzatura. Quella sera, sdraiati sui letti, cotti e
sfiniti, quei due ragazzi, a modo loro, si “dissero” molte cose. A
Kirill il fiume era piaciuto tantissimo, gli ricordava il suo Dnepr e
gli faceva sentire nostalgia di casa. Federico, che si accorse degli
occhi umidi dell’amico, provò a tirarlo su di morale proponendogli una
gita al fiume già per il giorno seguente. Così, quella domenica, da soli
provarono e riprovarono i setacciamenti e i lavaggi di chili e chili di
sabbia, ma niente. Le auree pagliuzze, come si dice, non le videro
nemmeno col binocolo! Stufi dell’inutile attività, presero in
considerazione l’idea di concentrare i loro sforzi alla ricerca di
qualcosa di vivo, e che avrebbero sicuramente trovato: passarono ore e
ore appostati dietro ai gelsi, sotto ai faggi, a volte anche sopra, in
mezzo alle umide baragge a “cacciare” gli animali con la macchina
fotografica. Scattarono foto di lontre, cicogne, svassi e martin
pescatori; aspettarono per ore acquattati nei capanni di osservazione
che si muovesse qualcosa e poi, all’improvviso, una mattina fortunata
Federico immortalò il nobile volo di una grande poiana. “Certo - disse
una volta a Kirill – potremmo stare qui un anno, ma il bisonte della
Bielorussia col cavolo che lo fotograferemmo!”. Si ricordava ancora di
quell’articolo sulle foreste di Beloveza letto dal parrucchiere, e
Kirill annuì, facendo intendere che , effettivamente, quel tipo di
animale da lui lo si trovava davvero, e senza nemmeno faticare troppo.
Fecero tuffi di ogni tipo alle vecchie cave, ormai trasformate in
limpidi laghetti, dove alle volte si fermavano per tutto il pomeriggio
con una scorta invidiabile di fumetti, Diabolik e Topolino soprattutto,
che Federico leggeva instancabilmente a voce alta migliorando non poco
l’italiano di Kirill.
Il massimo dei massimi però, si presentò davanti ai loro occhi la
mattina che precedeva di pochi giorni la partenza di Kirill per la
Bieolorussia: quel pazzo dello zio Gino infatti, per fargli un regalo,
con materiale di recupero e pezzi vari mise insieme una fantastica
bicicletta ammortizzata e super accessoriata adatta a percorsi estremi.
Era blu elettrico, con il sellino e il manubrio arancioni. Quando il
ragazzo la vide, parcheggiata sul vialetto di casa, e capì che era sua,
non riuscì a spiaccicare niente se non uno strozzato “Vjelosipjèd!
Spasìbo! Spasìbo!” e poi ci montò sopra. Dopo neanche dieci secondi era
già per terra, con un ginocchio sbucciato e un bernoccolo in testa. Non
aveva mai usato una bicicletta! Senza versare una lacrima, e sotto la
stretta sorveglianza dello zio Gino che lo incitava e lo teneva – mamma
Sonia osservava il tutto nascosta dietro le tende del soggiorno, con le
dita incrociate e la valigetta del pronto soccorso a portata di mano –
Kirill domò l’arnese meccanico e fu pronto per nuove avventure nella
vallata del Ticino. Dopo i sentieri, furono le piste ciclabili a non
avere più segreti per i due piccoli esploratori: a tutte le ore si
vedevano sfrecciare due bolidi – uno rosso e uno blu – su e giù per i
dossi e per i prati.
Più il momento della partenza si avvicinava, meno i due amici emettevano
suoni articolati: il dispiacere dell’addio si faceva sentire con un
fastidioso groppo in gola, il senso di strangolamento progressivo
impediva di parlare. Naturalmente né l’uno né l’altro erano disposti ad
ammetterlo, così gli ultimi giorni trascorsero quasi normalmente, benché
più silenziosi.
Per l’ultima cena che avrebbero consumato insieme, Kirill addirittura si
lanciò nella preparazione di un piatto tradizionale della cucina
bielorussa: il “draniki”, ossia una saporitissima frittella di patate
che ribattezzò “ alla Sonia” in onore della mamma di Federico, per
ricambiarla di tutte le squisitezze che aveva preparato per lui durante
quel mese.
Tempo dopo, al risveglio da quel sogno meraviglioso di uccelli plananti
e voli sull’acqua, Federico chiese a sua madre di cucinargli proprio il
draniki per pranzo, la sua mente era ancorata a quei bellissimi ricordi
e anche il suo stomaco voleva la sua parte. Ripensando alle frittelle,
alle corse in bici, ai tuffi, i suoi occhi ancora fissi sulla tazza
della colazione gli rimandarono malinconicamente le immagini del giorno
in cui Kirill era ripartito per la Bielorussia: davanti a quel pullman e
a quell’autista che metteva fretta e incitava i bambini a salire, i due
ragazzi non si erano detti niente, si erano solo stretti la mano, e
guardati fissi negli occhi. Proprio come era successo all’arrivo. Eppure
entrambi sapevano che da allora era cambiato tutto. Qualche ora più
tardi, Federico aveva alzato gli occhi al cielo perché, secondo i suoi
calcoli, l’aereo sarebbe dovuto decollare da Malpensa più o meno in quei
minuti. Dal giardino di casa sua aveva salutato il primo aereo che vide
passare: “Do svijdania, Kirill!” urlò senza minimamente preoccuparsi che
qualche vicino potesse sentirlo. Non poteva sapere che Lui era proprio
su quell’aereo, e che dietro all’oblò cercava di individuare la casa di
quella simpatica famiglia italiana, seguendo finché fu possibile la
striscia azzurra del Ticino che si snodava sotto di lui come un lento
serpentone. Da lassù li salutò con la mano e fece appena in tempo a dare
un ultimo sguardo al Monte Rosa: in quella giornata limpida e tersa
assomigliava a un gigante, messo a difesa di quella bella pianura di cui
aveva iniziato a conoscere qualche segreto. Dopo un istante, il suo
pensiero volò alla sua sorellina, e ai suoi genitori, che già si
figurava con il naso schiacciato sulla vetrata dell’ aeroporto, in
attesa di riabbracciarlo.
Passarono alcuni giorni e Federico ricevette una mail dalla Bielorussia
che diceva “Arrivato casa. Tutto bene. Grazie. Ciao”.
La vita di sempre ricominciò in fretta, come suggerito dalla mamma
Chicco svolse tutti i compiti delle vacanze, e alla fine la scuola
ricominciò. Tra lezioni, compiti in classe e intervalli i ricordi di
quell’estate si affievolirono a poco a poco, senza perdersi mai del
tutto.
A Novembre, il papà e la mamma iniziarono a insospettirsi notando le
strane uscite pomeridiane del figlio: diceva di andare a giocare a
pallone con i suoi amici, in oratorio, e ritornava a pezzi, infangato
dalla testa ai piedi. Per quanto ne sapevano loro, il campetto della
parrocchia era di cemento… La stessa cosa si ripeteva durante la
settimana e anche nei week end. Dal momento che, ultimamente, anche le
uscite del nonno Umberto avevano iniziato a moltiplicarsi - la scusa
della briscola giù all’Acli non poteva reggere a lungo - e la sua
vecchia Ford Fiesta ad essere insolitamente inzaccherata dentro e fuori,
decisero di chiedere spiegazioni mettendo seduti nonno e nipote al
tavolo della cucina: quello che ne seguì, fu un interrogatorio di terzo
grado degno di un film poliziesco. Il nonno, messo alle strette, fu il
primo a cedere. Quando si decise a spiegare ciò che lui e Chicco avevano
architettato, gli bastò tirare fuori dalla tasca posteriore dei suoi
jeans d’annata un sacchettino piccolo piccolo… Giovanni e Sonia ci
misero un attimo a capire, poi l’illuminazione. Strinsero forte forte
Federico, e mamma gli schioccò un bacio sonoro sulla guancia.
Federico si sentì sollevato: i suoi avevano capito e … approvato!
Andarono tutti insieme in posta per spedire il sacchettino all’indirizzo
che Kirill aveva lasciato loro: il Natale si stava avvicinando e, anche
se Federico sapeva che il suo amico, ortodosso, lo avrebbe festeggiato
solo il sette di gennaio, voleva essere sicuro al cento per cento che
ricevesse il dono in tempo.
Più o meno la stessa cosa era accaduta poche ore prima nell’ufficio
postale di Zhlobin: pacchettino simile, invio in Italia, ad Oleggio, di
una misteriosa scatoletta infiocchettata da parte di un bambino col
cappello rosso.
Probabilmente i due regali, chiusi nelle rispettive stive, si sfiorarono
in volo senza che nessuno lo sapesse e giunsero a destinazione in tempo.
La mattina del venticinque dicembre, Federico scelse per primo, tra
tutte quelle scatole colorati, il pacchettino della posta aerea, che
aveva depositato sotto l’albero ripromettendosi di resistere fino al
giorno di Natale. Così aveva fatto, e con le mani tremanti per
l’emozione lo scartò lentamente: dalla confezione azzurra sbucò una
bellissima matrioska sorridente e con le tipiche guance rosse; dalla
pancia della matrioska, che Federico aprì perché sperava di trovarci
qualcosa… uscì una minuscola trecciolina. Kirill nel bigliettino
allegato spiegava che, durante la gita scolastica al Parco Nazionale,
aveva fatto per lui una cosa proibitissima: si era avvicinato ad uno dei
recinti e, non appena gli insegnanti si erano allontanati un pochino…
zac!, aveva strappato dalla coda di un bisonte un ciuffo di peli. “Che
coraggio!” urlò Chicco, davvero commosso per quel gesto eroico che a lui
era valso un vero e proprio amuleto di amicizia.
A migliaia di chilometri di distanza, la mattina del sette gennaio
Kirill raccolse dal tappeto vicino alla stufa, dove lo aveva lasciato
appena subito dopo la consegna del postino, il sacchettino arrivato
dall’Italia. In religioso silenzio ne slegò il nodo e non ebbe bisogno
di leggere il biglietto di Federico per riconoscerne il contenuto: si
trattava di pochi, sudatissimi grammi di pagliuzze dorate. L’ultima
volta che sua sorella, suo papà e sua mamma lo avevano visto piangere,
era stato quando la pallonata del cuginetto Dimitrij gli aveva
fratturato il setto nasale, quattro anni prima. Così rimasero in
silenzio, chiedendosi quale fosse il senso di quella strana sabbiolina.
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