Soffiava da nord un
ventaccio cattivo che attraversava prepotente tutto il corpo, gelando l’
alluce del piede destro, il pollice della mano sinistra e la punta del
naso. Soffiava da giorni spazzando le strade dalla polvere degli uomini
e liberando l’aria dalla puzza acre delle auto. Soffiava facendo correre
a tutta velocità le ore, le lunghe estenuanti magiche ore che separavano
i bambini dall’arrivo del Natale. Insomma, soffiava via, almeno per un
po’, le malinconie appiccicose e le delusioni fastidiose di un intero
anno.
La grande casa, soffiata dal vento, stava là da sempre, lunga e dritta
come una torre e dritta e lunga come un campanile, be’… era una casa
fatta di tante identiche scatole, appoggiate da un geometra frettoloso e
da un architetto avventuroso una sopra l’altra( una specie di
lego-monumento ideato dalla testa matta di un bambino annoiato), un
‘interminabile costruzione che sembrava sfidare il cielo: si infilava
per tutto l’ anno nell’ aria ficcando la sua testa appuntita tra le
nuvole nei giorni di pioggia e brillando come la capocchia di un
gigantesco spillo nei giorni di sole.Non aveva colori quell’ edificio
allampanato, solo qua e là si accendeva di rosso o di blu per via dei
vasi di gerani aggrappati alle terrazze e di file svolazzanti di
lenzuola e camicie sbatacchiate dal vento.Macchie di luce nel grigiore
della città. Pareva uno di quegli uomini nati troppo alti, anime lunghe
che, per tutta la vita, devono portarsi dietro e mostrare agli altri il
loro corpo ingombrante,esagerato, smisurato, chiedendo quasi scusa di
essere troppo diversi,così imbarazzati dalla loro sproporzionata statura
da ingobbirsi ogni qualvolta incrociavano gli altri,i normali. Lo
Spilunga: così nel quartiere lo chiamavano grandi e piccoli. Per tutto
il giorno era spazzato, come una canna al vento, da una corrente
continua di tante e assordanti voci: grida e nitriti di bambini che
correvano giù per le scale verso il cortile, grida e ruggiti di mamme
che li chiamavano per acchiapparli e infilarli a letto, grida e barriti
di bambini che correvano su per le scale fuori dal cortile, grida e
squittii di tv accese senza sosta dalla colazione alla merenda, dal
pranzo alla cena. La notte, quando grandi e piccoli finalmente tacevano
e solo i sogni parlavano, correva sui binari e sotto le stelle la voce
ansimante del treno… Già, questo è l’ inizio di una lunga storia che
un tale, di cui non so il nome e di cui non ricordo nemmeno il volto, mi
ha raccontato un po’ di tempo fa. Lo dico da subito, io, ancora adesso,
non sono sicuro che sia una storia vera, il tipo che parlava era a dir
poco strano,un saltafossi da paese, un perdigiorno da osteria, ma
siccome di gente bislacca ne ho incontrata tanta nelle strade che ho
pestato mi prendo la responsabilità di farvela conoscere anche perché,
lo sanno quasi tutti, che certe storie intriganti e zuppe di bugie, se
hai la pazienza e il cuore per ascoltarle fino alla fine, dicono spesso
la verità. Si sa che è così, o no?
Lo Spilunga era abitato da un nugolo di bambini, tanti e urlanti,
tutti uguali e tutti diversi, maschi e femmine, zucche rapate e treccine
a penzoloni, teste cespugliose e codini saltellanti, ginocchia sbucciate
e unghie color fuxia, occhi feroci e sorrisi timidi: insomma Spilunga
era un puntino del vasto mondo,un’ isola di cemento, un porto senza
mare,un posto come tanti solo un po’ troppo vicino al cielo e un po’
troppo soffiato dal vento. Tarantola, Ciocorì, Teppa e Due Pistole erano
quattro amici, sempre assieme,sempre in movimento, sempre a confabulare,
dal primo di gennaio al trentun dicembre, dal lunedì alla domenica,
dalle prime ore del giorno al calare della sera,dal primo sbadiglio
all’ultimo respiro, dal primo ciao all’ ultimo ‘ci rivediamo domani’.
Tarantola era uno secco come un bastone e nervoso come una trottola,
Ciocorì era uno nero come Duffy Duck e furbo come Bugs Bunny, Teppa era
una dispettosa come una zanzara e matta come un poeta, Due Pistole era
uno svelto come un pensiero e nobile come un cavaliere. Erano una
bizzarra, buffa, inseparabile, tumultuosa, tenera compagnia: una banda
affiatata, fedele e onnipresente ai piedi, nella pancia e sul testone di
Spilunga. Su e giù, dentro e fuori e, naturalmente, intorno.
Quando non vagabondavano in cerca d’avventura o quando non sfruttavano
il tempo giocando a non far niente,passavano molte interminabili ore
nella stessa scuola: cupa e polverosa come la sala d’ attesa di una
grande stazione. La sorte non aveva voluto che finissero nella stessa
classe, ma si ritrovavano immancabilmente durante la ricreazione in
cortile o lungo i labirintici corridoi tappezzati di monumentali disegni
quando, non troppo di rado, finivano a turno espulsi, più o meno
giustamente, dalle signore maestre.Be’, insomma… mica è tanto facile
stare ore e ore attenti ed entusiasti a sentire una che disserta di
preposizioni articolate, un’ altra che snocciola, uno dietro l’altro,
gli affluenti di sinistra del Po e i cocuzzoli più a punta delle Alpi
Cozie, una che elenca in ordine alfabetico nomi e cognomi di papi e re e
un’ altra che , senza sosta e senza pietà, da ... i numeri. No, non
erano degli alunni poi così difficili, lì in quella scatola di mattoni
battezzata Scuola Dante. Erano ragazzini simili a tanti altri,solo che
venivano giudicati, a volte, ‘quasi normali’,e, a volte, ‘quasi
problematici’, che equivale a ‘ capaci di tutto’ e ‘mezzi scemi’.
Comunque, la cosa fondamentale per tutti loro era che il tempo, quello
dell’ orologio, passasse in fretta, corresse all’impazzata, volasse alla
svelta e, inarrestabili, arrivassero, come raggi di sole dopo un diluvio
o come gocce d’ acqua dopo la calura, le magiche vacanze. E allora sì la
giornata era piena, piena di avventure, di noia, di progetti, di
delusioni, di nuovi sogni, di antiche sconfitte.
Il bar, venti metri quadri incastonati tra un negozio di ferramenta e lo
sgabuzzino di un calzolaio, era uno di quei posti con tanta luce lì a
destra e poca luce là a sinistra, insomma, per capirci, quel tipo mezzo
matto parlava, parlava e parlava acquattato nell’ ombra . Solo a tratti,
illuminato ritmicamente dal crudo bagliore di un neon, scorgevo il suo
volto. Regalava a pochi la sua storia strampalata, raccontava a voce
bassa, misurava le parole,cercava il silenzio e, dopo un colpetto di
tosse,prendeva il via e tirava a lungo, quasi senza riprendere fiato. E
così saltavano fuori, come conigli da un cappello a cilindro, i pensieri
e i sogni dei quattro bambini che giravano i loro giorni intorno a
Spilunga. Io, a cavallo di una sedia, seguivo incantato la sua voce: era
profonda e cavernosa. Accanto a me, ammazzati da una serie infinita di
amari, due vecchi cercavano di addolcire la giornata e, cocciuti,
tiravano gli occhi, spalancavano la bocca e drizzavano le orecchie e… Tarantola viveva con la sua tribù di otto persone,genitori
compresi,in un condominio non lontano da Spilunga: era un palazzone
tondo, un cerchio di pietra disegnato da un compasso gigante, un pallone
di gomma troppo gonfio e, da fuori, con un briciolo di fantasia, non
facevi fatica a immaginare, dentro, i mobili, i letti,il forno e il
frigo tutto a forma di sfera, una specie di ridicolo uovo grigio
abbandonato nello sterminato pollaio chiamato città. Era davvero uno
spasso, un tantino crudele in verità, pensare a come doveva girare la
testa a chi passava la sua vita, notte e giorno, in quella specie di
circuito di cemento. Chissà, forse questa era una delle ragioni per cui
Tarantola, un bel giorno di aprile, era schizzato come una molla dalla
culla al marciapiede,saltando a piè pari gli ostacoli, le buche e i
trabocchetti che lo aspettavano e fra piroette, giravolte e capitomboli
aveva imparato da subito le amare regole della vita. Tarantola aveva le
tasche sempre vuote e la testa sempre piena di super-idee: come fare
questo, come non fare quello, come arrivare prima, come entrare per
ultimo e così via. Tutto quello che pensava, e poi realizzava, sembrava
sbattere come una catapulta contro le cose così come stanno, ma non era
solo rabbia la sua, era soprattutto una naturale necessità di
sprigionare energia, un bisogno forte di lanciare nell’ aria un urlo
esagerato,come capita dopo un dolore troppo nascosto, dopo un’ attesa
troppo estenuante, dopo un goal troppo sospirato.
Che tipastro quel Tarantola! Ciocorì se ne stava con la mamma, il papà e
una sorella piccola in una casetta colorata come un’ arancia troppo
matura, a ridosso del quartiere. Era un posto buono per i neri, almeno
finché la baracca ce la faceva a stare in piedi da sola e almeno finché
non finiva per dare noia a Chi, nella sua disinteressata lungimiranza,
pensava di fare la città tutta bella grande, tutta bella fitta e tutta
brutta uguale. Era dura la sua giornata tra le lezioni in classe al
mattino e i lavoretti in un negozio al pomeriggio, ma Ciocorì aveva
ereditato due enormi fortune che poi erano una: un piedino sensibile che
toccava il pallone da calcio con la grazia e la leggerezza di un
giocoliere e un sorriso contagioso che lo aiutava a rialzarsi da terra
in un baleno, nonostante i colpi proibiti e le spinte subdole che subiva
in campo e in strada. Una fila bianca di denti storti sfidava il mondo e
brillava libera in quel faccino da cavallo di razza.
Che tipastro quel Ciocorì!
Teppa abitava tre piani sotto Tarantola e,fin da piccoli,i due avevano
consumato il sedere sui banchi della stessa scuola e sulle scale dello
stesso condominio. Genitori niente, spariti! Uno si mangiava la vita in
galera e usciva di tanto in tanto a prendere aria e,poi, di nuovo
dentro, al fresco.Una era volata via molti anni prima e, al contrario
delle rondini, non si faceva viva nemmeno a primavera.
Teppa passava il suo tempo o in strada con gli amici o in casa con il
nonno. Erano una stramba coppia, si volevano un gran bene e baruffavano
ogni mezz’ora, testardi e dolci come due somari. Come la faceva ridere
il nonno quando, con tono pomposo, voleva a tutti i costi fare il
saggio, una sorta di stregone di periferia, un Gandalf dei poveri. ” Il
temporale ,Anna, arriva sempre da nord, là dove le nuvole gonfie di
pioggia affoscano la vetta dei monti e sempre, non scordarlo mai,
scoppia verso sera,al calar delle tenebre: è scientifico!”,ammoniva con
quell’aria saputella, agitando, come un mago da fiaba, il suo braccio
ossuto verso il cielo. Che risate squillanti e che musi lunghi, che
sguardi ironici e che occhiate di fuoco quando lampi e tuoni, l’
indomani, galoppavano furiosi dai mari del sud e rombavano
immancabilmente all’ alba, allo spuntar del sole.
Che tipastra quella Teppa! Due Pistole stava più in là, al confine della
città dei ricchi, quella dai bei viali alberati, dai bei negozi
illuminati, dalle belle commesse eternamente sorridenti. Aveva un papà
che faceva il prof e una mamma che lavorava in ospedale e la sua casa,
dentro e fuori, era quasi normale. Se non era in giro con la sua banda
di amici, consumava ore e ore a giocare a soldatini, ne aveva due
scatole di latta piene: cow boy, indiani, messicani, cavalli bianchi,
neri e pezzati.Glieli aveva lasciati lo zio Pino che li aveva avuti, a
sua volta, dallo zio Walter: una vera e propria collezione, un ‘ eredità
fatta di tanti semplici omini di gomma. Due Pistole, nel silenzio della
sua stanza,circondato da centinaia di libri, inventava con loro storie
incredibili: battaglie, fughe, duelli, rapine, agguati muovendo quel
piccolo mondo di soldati in miniatura su e giù, dalle montagne rocciose
ai grandi fiumi, dai rossi canyon alle verdi praterie. E, poi, prestava
loro la sua voce e d’ incanto i suoi piccoli eroi, tra una sparatoria e
l’ altra, prendevano a parlare:’’All right marshall, hasta la vista
muchacos, augh numakaki’’. Che tipastro quel Due Pistole! E lui,
il Misterioso, continuava a parlare e parlare, simile a un fiume che,
goccia dopo goccia, spinge testardo la sua acqua fino alla meta, fino al
mare, fino alla fine. Uno dei due vecchietti si era arreso, un mugugno
di saluto e via… preso al guinzaglio dalla consorte che era scesa, come
ogni sera, a recuperarlo. L’ altro tenace spettatore,oramai stremato dai
tanti bicchierini color amaranto, si era arreso al sonno e continuava a
sognare con il capo abbandonato sul tavolo. Restavo io, non avevo mai
molto da fare, se non dialogare con me stesso e pensare a una figlia che
aveva smarrito il sorriso e, devo essere sincero, quel narrare confuso
ma avvincente mi aveva stregato e aspettavo…
Mancava un giorno a Natale e la banda si era spinta verso il centro, là
dove le vetrine luccicavano di alberelli colorati e tante faccione di
Babbi Natale rubicondi facevano capolino tra angioletti rosei e
riccioluti,tra navi megaspaziali e bambolone ammiccanti, tra supermostri
superorribili e grotteschi peluche tutte coccole. E poi tanta gente che
camminava in fretta come se inseguisse un tram troppo veloce, che
parlava in fretta come se dovesse lasciare ai posteri le ultime volontà,
che comprava i regali in fretta come se temesse di finire i soldi da un
momento all’ altro, che viveva quelle ore in fretta come se desiderasse
che la Festa finisse in fretta. Loro no, loro passavano da un
marciapiede all’altro, ciondolando come turisti in vacanza, fotografando
con gli occhi tutta quella meraviglia, gustandosi con pigrizia un
leccalecca giallo e tutto quel ben di Dio e, in un angolino, sognando di
ricevere in dono uno di quei giochi fantastici, ben sapendo che quello
che avrebbero trovato la mattina di Natale, al loro risveglio, sarebbe
stato poco più di niente. Invece che poco più di niente, Tarantola
desiderava e tanto uno scate board rosso fuoco , Ciocorì un pallone da
calcio vero, Teppa un librone di esperimenti e magie, Due Pistole una
tribù intera di guerrieri Mohicani. I sogni non costano nulla e, a
volte, si consumano in pochi metri di strada, si smarriscono tra le
gambe dei passanti e le ruote delle auto, si dileguano tra lo
sferragliare di un tram e lo scoppiettio di un tubo di scappamento. E in
tutta quella confusa confusione, in tutta quella frenetica frenesia, in
tutto quel mare di facce anonime un’ unica persona li incuriosì: un tipo
buffo camuffato da Babbo Natale. Se ne stava a cavallo di una
bicicletta, teneva in mano un campanaccio, portava a tracolla un
sacchetto di caramelle e nascondeva tra la sua barba di cotone un
sorriso. Gli passarono accanto squadrandolo di sottecchi, intimiditi e
incerti, come se lo conoscessero da sempre, come se l’ avessero visto
chissà dove. Quando Teppa, che era l’ ultima della fila, si girò curiosa
a fissarlo, l’ ometto tondo, all’improvviso, le mostrò la lingua.Il
cigolio di un pedale,il fruscio di una ruota di bicicletta, il drin di un campanello,l’ eco di una canzoncina, lontano, di tanto in
tanto. Sì, mancava poco, davvero poco a Natale! Era quasi buio quando i
quattro vagabondi ritornarono, stanchi e confusi, nel loro territorio:
gli occhi pieni di ombre e luci, delusioni e sogni, certezze e dubbi,
proprio come fanno, Natale dopo Natale,dal centro di Stoccolma al
cortile di Spilunga, tutti i bambini buoni,tutti i bambini cattivi e
tutti i bambini così così. Nessuno di loro aveva voglia di parlare, come
se ognuno cercasse di nascondere agli altri un misterioso intimo
segreto, capace di esistere ancora, almeno ancora un po’, se rimaneva
lì, in un angolo, da solo,stretto, dentro. Troppo silenzio! Troppo!
Tarantola non ce la fece proprio più e spezzò l’ incantesimo mettendosi
a correre a quattro zampe e ad abbaiare come un mannaro davanti al
musetto di un pechinese tutto fiocchetto e codina. Il cagnolino guaì, il
padrone sbraitò, Teppa scoppiò in una delle sue folli risate, Ciocorì
sollevò da terra col suo piedino fatato un barattolo di pelati e lo
colpì al volo e Due Pistole, con un tuffo sulla sua destra, lo parò e,
rapido, lo infilò con un gancio sinistro nel contenitore dei rifiuti.Centro!
Canestro! Cestino!
Anche lo Spilunga era in agitazione,in pieno fermento pre-festivo,
uomini e donne si sbracciavano, concitati ed emozionati, come se
stessero tutti insieme per salire sulla stessa corriera e partire in
gita a Riccione e addirittura su qualche porta luccicavano, fieri come
dorati trofei vinti alla Bocciofila, variopinti addobbi natalizi, mentre
per la rampa delle scale scendeva e saliva ,ossessiva e languida, la
cantilenante strofetta “Jingle Bells, jingle bells” ,
direttamente sparata dalla bocca spalancata di radio e televisioni
perennemente in moto. In moto frenetico,passo dopo passo, gradino dopo
gradino, tra profumi di ragù e giochi sparpagliati, sgambettava
disperato e ansimante Nonno Temporale! Incrociò Teppa e i suoi amici sul
portone di casa, borbottò loro qualcosa di incomprensibile,azzittì il
loro consueto chiacchiericcio e si infilò nell’ ombra della strada
scuotendo le braccia nodose, come rami al vento. Mistero! Il nonno di
Teppa ,di norma,non si muoveva volentieri dal suo regno,fisso e
incollato al pavimento come un’ antica quercia,e non si alzava dalla sua
poltrona imbottita in finta pelle, se non per scrutare, venti volte al
giorno, i colori del cielo, sgranocchiare, venti volte al giorno, un
grissino con la maionese e andare, venti volte al giorno, al bagno, del
tutto simile nelle sue immutabili consolidate abitudini a Ciabatta, il
vecchio gatto grigio di pelo e di anni che riempiva con il suo molle
incedere il silenzio della casa e con la sua proverbiale fame la propria
pancia di crocchette.
Mistero! Il narratore di storie fermò la voce, come se volesse
riprendere fiato prima di lanciare nella sala altre misteriose
meraviglie. Allungò la mano sottile e sfiorò con tenerezza la testa
piena di sogni e liquore del vecchio cliente, poi mi fissò a lungo e un
brivido attraversò tutte le piastrelle della stanza e tutte le ossa del
mio corpo. Trangugiò d’un fiato un bicchiere di vino,sospirò
soddisfatto, si rintanò ancora di più nella penombra e riprese a
parlare: era voce di incanto, ricca di pause, povera di menzogne,carica
di attese,ammaliante e franca, malinconica e serena. Fuori, scendevano
radi fiocchi di neve…
Il nonno di Teppa si era precipitato, senza cavallo e senza spada,
ma in bicicletta e con l’ ombrello, in soccorso della signora Ida, la
più longeva, la più duratura,la più granitica e fedele inquilina dello
Spilunga. Si conoscevano da un sacco, anzi da almeno sessanta sacchi di
anni e c’era chi, nel quartiere, giurava che un tempo i due…Insomma,
erano due buoni vecchi amici e, ora, era giunto il momento di
dimostrarlo, ora più che mai giacché era quasi arrivato il giorno di
Natale, il solo momento dell’ anno in cui anche i vigili non danno le
multe, i generali non fanno sparare i loro cannoni, i bambini non dicono
troppe parolacce. Ma per quale nobile,suprema ragione quell’insieme di
ossa arrugginite di Nonno Temporale si era messo in moto e, tra soffi di
vento e fiocchi di neve, caracollava per le strade del quartiere,
entrando e uscendo come uno spiffero da una cartoleria all’
altra,infilandosi,lui che sapeva di zolfo, nelle due sacrestie ancora
aperte, sbuffando fiamme dalla bocca come un drago che duella con ardore
contro i fendenti di un crudele cavaliere e soffiando fumo dal naso come
un battello a vapore che gareggia in astuzia con le correnti maligne di
un impetuoso fiume? Era successo che la signora Ida, famosa a Spilunga e
dintorni, per la sua maestria nel fare torte senza zucchero e risotti
senza sale, per la sua indomabile fede verso la locale squadra di
pallamano, per la sua ventennale cavalcante miopia e, soprattutto, per
la sua incrollabile mania di allestire per le feste un presepe
monumentale non trovava più, né nel cassetto di destra dell’ armadio né
nella cassapanca in cantina,i tre… Re Magi. Ma Gino il titolare della
rinomata cartoleria “Lo Scarabocchio” e don Remigio il titolare della
misericordiosa parrocchia di “ San Antonio Abate” non erano riusciti a
porre rimedio al tormentato dramma del generoso cacciatore di statuine:
non era rimasto in negozio nemmeno un Re Magio zoppo e in chiesa
Melchiorre e compagni erano ormai posizionati ai loro posti, là in
fondo, in cima alla montagna di cartapesta, ancora, per poco, un tantino
defilati. E allora?
Nonno Temporale sgusciò, furtivo, in un piccolo bar e nella penombra
della sala si scolò con rabbia due bicchieri di chinotto. Un lampo e
uscì di corsa,trafelato e nervoso, mentre alle orecchie gli arrivava l’
eco di una voce profonda e ammaliante. Mentre attraversava i giardinetti
pubblici, lanciando occhiate sospettose a destra e a manca, si sentì
tirare forte il cappottone, uno strattone brusco seguito da una risata
dolce: Teppa e i suoi tre compari se ne stavano seduti su una panchina
arrugginita e sembravano aspettarlo. Che tipastri! Raccontò tutto, di
getto, raccontò dei Re Magi smarriti, di chissà dove li aveva ficcati
quella benedetta vecchia, della povera signora Ida che era mezza matta e
mezza cieca ma tanto buona, dei cartolai che pur di fare soldi vendono
le statuine dei magi a chicchessia, dei preti che pensano di avere l’
esclusiva sui presepi,della preghiera “Sant’Anton dala barba bianca
fam cataa col ch’ am manca” che non funziona mai, del chinotto che
non è più quello dei suoi tempi, del cielo troppo violaceo, che non
promette niente di buono e del temporale che se viene da nord…
Nonostante questo diluvio di sfoghi, recriminazioni e filosofiche
considerazioni , o forse proprio per questo, i bambini capirono
perfettamente quello che frullava nel suo testone e Due Pistole, che a
pensare era più veloce di Billy the Kid a sparare, ebbe un ‘ idea
davvero esplosiva, degna di quel muso rosso di Cavallo Pazzo quando,
mica tanto tempo fa, prese a calci nel sedere il biondo generale George
Armstrong Custer. Per rimediare alla catastrofe causata dalla scomparsa
dei tre Saggi d’ Oriente e ridare colore, respiro e ossigeno alla
vecchia signora Ida, sarebbe stato sufficiente aprire una scatola di
latta e prendere da là e in tutta fretta portare lì tre… Nell’ aria
umida del locale volavano, come tanti coriandoli impazziti, parole e
parole da ore e ore, ma dal timbro grave della sua voce avvertivo che,
adesso, sarebbe accaduto qualcosa di strabiliante, di unico, di
decisivo. Una pausa, un silenzio breve , un sorriso beffardo tutt’intorno,poi
con un saltello degno di un clown era salito in cima al tavolino e,
ridacchiando fra sé e sé, aveva sferrato l’ ultimo attacco…
“ Donde vamos, muchacos? Non intiendo nada e por la fame me gira
la cabeza.. Ramon, per la Santissima Vergine del Pilar, donde
siamo diretti?.” Tranquilo Pedro,tranquilo,vamos oltre il rio Pesos,in
tierra gringa, non te garba mucho, amigo?”.” Quien sabe? Quien sabe?”.
Tre messicani cavalcavano lungo le vie semideserte della grande città di
pietra, tre piccoli messicani con sombrero e stivaloni cavalcavano lungo
le vie semideserte della grande città di pietra, tre minuscoli messicani
con pistole e cartuccere cavalcavano lungo le vie semideserte della
grande città di pietra, tre soldatini di gomma vestiti da messicani
cavalcavano lungo la pista di sabbia che portava da Santa Fé a El Paso,
oltre il rio Pesos, in terra straniera. Avevano una missione da portare
a termine, una pericolosa ardita missione: salvare l’ onore di una
signora e ridarle il sorriso dei giorni di festa. Avanzavano, superando,
uno dopo l ‘altro, fiumiciattoli fangosi e colline rocciose,deserti di
fuoco e villaggi fantasma, avanzavano masticando polvere e mozziconi di
sigaro, mentre una tempesta di sabbia bianca e gelida spazzava il loro
viso cotto dal sole e si fermava ,in tanti piccoli ghiaccioli, sui loro
lunghi mustacchi.
“ Ramon, por favor allenta la corsa,il mio cabajo mi mata, è niervoso
come un serpe e stracomuerto come un peone. Amigo mio, è tiempo di
fermarsi por una siesta, nina, mui nina”.” Pedro, amigo mio, tu es un
hombre con mucho corazon, ma tu es un hombre mui mui loco, non teniamo
tiempo por la siesta, il nostro General Due Pistole è stato mucho claro:
per la metà della noche dobbiamo essere nel nuevo paese.Comprendido?”. “
Tan bien, amigo mio, ma porqué tu habli un pochito in mexicano e un
pochito in la lingua de nuestro glorioso General?”.“ Quien sabe!”.
Rodriguez, il terzo bandolero, non parlava molto,ma ascoltava i rumori
della notte e, a ogni sibilo,ogni scricchiolio,ogni brusio metteva
rapido le mani alle due pistole dal manico dorato che portava alla
cintura. Tutto, intorno, sembrava calmo, solo, lontano, i coyote
ululavano alla luna, solitari e tre avvoltoi giravano in cerchio,
minacciosi. Un grande roboante carro di ferro passò a tutta velocità
facendo imbizzarrire il cavallo bianco di Ramon e spruzzando acqua e
fango sugli stivali neri di Pedro. ” Cabron!”, urlò il primo,”
Maldido gringo!”, urlò il secondo. Poi, per miglia e miglia,
proseguirono il viaggio in assoluta tranquillità e Pedro, che portava
sempre con sé la sua chitarra, trovò anche il tempo e la voglia di
intonare un canto alla sua bella lontana innamorata. La sua voce, calda
e melodiosa, si perse nel vento, nel silenzio della via e nei sogni dei
bambini. Solo, in un angolo, un gatto nero danzava nella
notte,inventando per un pubblico invisibile buffe piroette. Zoccolo dopo
zoccolo, i tre soldatini cavalcarono fino al giardinetto che portava
allo Spilunga, passarono zitti e pensierosi tra i sogni agitati di un
barbone che, avvolto in una coperta di carta di giornale, aspettava l’
alba rannicchiato su una panchina arrugginita.Sotto l’ ombra della
grande montagna chiamata Spilunga, il piccolo esercito di messicani tirò
le redini e i cavalli, sbuffando nebbia dalle narici, si fermarono di
colpo. Smontarono da sella, si spolverarono i vestiti, si aggiustarono
sul capo il sombrero,si lisciarono i baffoni, lanciarono nell’ aria
fresca l’ ultimo sigaro e urlarono a squarciagola:” Adelante
compagneros.Viva la Segnora Ida e viva, siempre, la Revolucion!”. Si
arrampicarono con i loro lazos lungo le pareti scoscese del monte
Spilunga e roccia dopo roccia si ritrovarono, infine, davanti alla
fazienda della Segnora. Ad un cenno di Rodriguez si slacciarono il
cinturone con le pistole e lo appesero alla maniglia della porta della
famiglia Pacifici, nascosero sotto il tappeto anche un paio di machete,
un fucile e un candelotto di dinamite. Solo allora, in punta di stivali
e tenendo il sombrero tra le mani, entrarono in casa e.. E, come se
sapessero già dove stare, presero posizione giù in fondo,di fronte a una
fila di angioletti biondi in bilico sopra una stalla, là sulla destra,
dopo il laghetto con le papere, tra un pastorello con la faccia da buono
e una donna che, curva ,continuava imperterrita a lavare i panni. Fecero
un sorriso di circostanza a un cammelliere più nero della pece, diedero
un’ amichevole pacca sulla schiena a un fabbro barbuto, esaminarono a
lungo tre strani cavalli con due gobbe e si misero, con messicana
pazienza, ad aspettare il loro turno. Ora il presepe era
pronto,completo, perfetto, come deve essere ogni anno di ogni Natale
nell’ appartamento numero 181, scala S, nel penultimo piano del
condominio Spilunga. La signora Ida poteva andare a letto soddisfatta,
tutto era in ordine e,poi, grazie ai suoi occhi malconci, non poteva
certo accorgersi che Baldassarre, Melchiorre e Gaspare, quella notte
dell’anno del Signore duemilaeoltre, portavano in testa il sombrero e
tenevano fra le mani per il Nino della capanna una tortillas bianca come
la neve, un peperoncino rosso come il tramonto e un fiore giallo come il
grano. Le lucette si erano accese e illuminavano, a singhiozzo, il
presepe, un cielo blu, tempestato di stelline, avvolgeva come un manto
le statuette,la cometa si specchiava negli occhi scuri di Ramon, una
contadinella offriva una brocca d’ acqua a Rodriguez e un soldato romano
ascoltava estasiato la melodia che usciva dalla chitarra di Pedro.
Fuori, nell’ affollata città degli uomini, Tarantola dormiva, Ciocorì
sognava, Teppa russava, Due Pistole pensava.
Tacque, di botto, simile a una fontana che non può più dare acqua. Balzò
giù con un saltello dal tavolino,si coprì il capo con un cappellaccio,
si chiuse nel suo pastrano, accese una lunga pipa ricurva e, curvandosi
sotto la saracinesca del bar, scivolò in strada. Albeggiava. Sentii i
suoi passi risuonare sull’ asfalto bagnato e, non chiedetemi perché, gli
corsi dietro, incerto e inquieto come un bambino che cerca al buio i
capelli del papà. Ogni suo passo valeva tre dei miei, anche se, a prima
vista, mi era parso appena più alto di me. Camminava a grandi falcate
nel mattino nebbioso e, stranamente, più si allontanava più lo vedevo
crescere di statura: due metri, tre metri, dieci metri. E la pipa
lanciava nel vento sbuffi azzurri di fumo e i rami degli alberi si
facevano suonare da una brezza leggera.Un concerto di foglie! Corsi come
un folle e arrivai col fiatone all’ angolo di una casa, mi appoggiai al
muro e lo vidi. Si avvicinava allo smisurato palazzone levando la mano
in un saluto amico e togliendosi, per un attimo, il cappello come fanno
i vecchi di paese. Si avvicinava con andatura decisa e più avanzava più
si ingigantiva. Quando gli fu di fronte, alla stessa sua impossibile
altezza,cinse con le ali del suo mantello lo Spilunga, lo abbracciò
stretto e, dentro di lui, lento si sciolse. Lo so, è roba da non
crederci e io sono il primo a darvi ragione, ci mancherebbe altro. E,
poi, non sono tanto sicuro che sia andata proprio così, più ci penso e
meno certezze mi rimangono. Forse è stata tutta colpa del vento o
forse…D’ altra parte, fin dai tempi in cui i grandi dicevano le bugie e
i piccoli la verità, si narra che le storie intriganti più le senti e
più si gonfiano, più corrono per le strade più mutano, più le racconti
in giro e più ti sfuggono di mano. Lo sanno perfino i bambini, o no? Ma,
almeno a Natale, almeno qui a Spilunga, perché meravigliarsi della
meraviglia! |
"Caro Babbo
Natale, desidero tanto una bicicletta, una che ho visto nel Parco delle
Biciclette Dimenticate della mia città. Non è nuova, è un po'
arrugginita, ogni giorno di pioggia in più è la rovina per lei e le
altre tutte ammucchiate. Basterebbe una chiave per aprire il lucchetto
della catena che la imprigiona, una ripulita, un po' di antiruggine,
della vernice rossa, sì la vorrei rossa, con le ruote gonfiate sarebbe
come nuova.
Devi sapere che la gente arriva, lascia la bicicletta nel parco, la
incatena perchè nessuno la rubi e poi non torna più a riprendersela. Se
ne stanno lì, tristi e immobili, di tutte le forme e dimensioni,
appoggiate agli alberi che sembrano soffocati. Mamma e tutti qui dicono
che non si possono prendere, perchè non è roba nostra. Se si potesse
liberare le biciclette dalle catene e toglierle dal parco, anche gli
alberi tornerebbero a respirare. Mi piacerebbe incontrarti. Ciao,
Fausto". Imbucai la lettera e non ci pensai più. Qualche tempo dopo
ricevetti una cartolina:
"Arriverò nella tua città prima della fine dell'estate, vieni a
prendermi alla stazione. Non sarà difficile riconoscermi", seguiva il
giorno e l'ora dell'arrivo e concludeva con "sarò felice di conoscerti
Fausto. A presto, Babbo Natale".
Non solo mi aveva risposto, veniva persino a trovarmi. Nell’attesa
dell’incontro, facevo lunghe passeggiate nel Parco delle Biciclette
Dimenticate, d'estate è l’unico posto un po' fresco della città.
Osservavo che ogni giorno se ne aggiungeva una nuova, una incatenata
all'altra. Un pomeriggio vidi una ragazza arrivare con la sua bicicletta
e dopo essersi accertata che fosse ben legata andò a sedersi al tavolo
del Bar del Parco. Ordinò una granita, dallo zaino tirò fuori libri e
riviste dedicandosi alla lettura fino all’ora di chiusura. All’uscita la
raggiunsero i suoi amici e insieme salirono su un’auto. Non la rividi
più, la sua bicicletta invece era sempre là dove l’aveva lasciata. Un
altro giorno un signore molto elegante con una valigetta ventiquattrore,
legò con una catena la sua bicicletta alla ruota di un’altra, iniziò a
piovigginare. Si recò poco lontano a un appuntamento forse di lavoro,
cominciò a discutere, si scatenò un temporale. Piovve così forte che
l’uomo riparandosi il capo con la valigetta, salì sul primo autobus per
la stazione. Abbandonò la bicicletta in una pozza di acqua e di fango.
Un’altra volta un ragazzo era tornato a riprendersi la sua bicicletta,
ma non la riconosceva più, provava ad aprirle tutte, niente da fare,
tirava stizzito qualche calcio e rassegnato se ne andava via a piedi.
Finalmente arrivò il giorno dell’incontro con Babbo Natale. La sera
prima puntai la sveglia e trepidante come la notte di Natale, stentai
a prendere sonno, pensavo alle biciclette, cominciai a contarle come le
pecore e mi addormentai. L’indomani arrivai puntuale al binario. Eccolo
scendere dal treno, indossava pantaloni e maglietta rossi, sandali,
l’inconfondibile copricapo rosso col pelo bianco e un sacco sulle
spalle. Gli andai incontro sventolando la cartolina che mi aveva
spedito, e appena mi vide, sorridendomi disse: "Devi essere Fausto. Ho
un bagaglio un po' pesante con me, prenderemo un taxi". Ancora non ci
credevo, ero seduto accanto a Babbo Natale in un taxi, ed era arrivato
col treno, ma allora non viaggia solo con le renne, pensai.
La mamma gli aveva preparato la stanza degli ospiti e lo accolse con un
tè freddo e una torta gelato.
"Suo figlio mi ha risolto un grosso problema, con il “Parco delle
Biciclette Dimenticate" e rovesciò sul tavolo un mucchio di lettere e
chiavi, "sono tutte richieste di biciclette, solo e nient’altro che
biciclette. Con queste chiavi forse riuscirò ad aprire tutti i
lucchetti. Avevo qualche bicicletta nel magazzino, ma non sapevo proprio
come accontentare tutti, finchè è arrivata la lettera di Fausto a
tirarmi fuori dai guai. Ho già tutti i permessi per aggiustare e
prelevare le biciclette dal parco. Sistemerò subito la tua, Fausto, e
sarà la mia prima consegna di quest’anno". Dopo cena ci mostrò un album
di foto scattate in primavera nei meravigliosi boschi accanto alla sua
casa: mirtilli ed eriche; betulle, pini e abeti; distese di anemoni
bianchi, violette e candidi eriofori; oche selvatiche e voli d'anatre.
Vi era infine una immagine molto curiosa, spiccavano in lontananza nella
neve, una coppia di cappucci neri a punta e in primo piano altre due
identiche coppie.
" Come è capitata qui?, questa foto fa parte di un'altra serie. Quelle
in fondo," ci spiegò Babbo Natale "sono le punte delle orecchie della
lepre variabile*. E' un tipo di lepre che d'inverno ha il manto bianco e
in primavera con la muta si copre di peli bruni e grigi. Perde il pelo
un po' alla volta, prima solo sul capo, poi sul collo, cambia quello
del dorso, dei fianchi, delle zampe e infine delle orecchie e della
coda. Ma la punta delle orecchie rimane sempre nera in tutte le
stagioni.
I miei assistenti fotografi, per non spaventarla e riuscire così a
seguirla e riprenderla, hanno indossato scarponi, tuta, guanti,
passamontagna, occhiali completamente bianchi, macchina fotografica
compresa, e un cappuccio con due orecchie dalla punta nera, come i
colori della lepre in inverno. Queste quattro orecchie in primo piano
sono appunto i miei assistenti ben mimetizzati, che sono riusciti a
seguire la lepre fino a primavera al momento della muta. Ora vi
mostrerò l’intero servizio fotografico". Tirò fuori un altro album
proseguendo il racconto.
"In primavera, fotografarla diventò più complicato, perchè man mano che
perdeva il pelo, i fotografi per continuare ad assomigliarle, si
dipingevano la tuta di peli bruni e grigi. Solo così sono riusciti a
scattare le fasi della muta, come potete vedere da queste foto".
Guardavo e riguardavo quelle buffe immagini con mamma, avevamo le
lacrime agli occhi dal ridere nel vedere le fasi della muta dei
fotografi in primavera con i peli dipinti sulla tuta. Intanto Babbo
Natale, cullato dalle nostre risate, si era addormentato vestito, anche
lui si mimetizzava bene sul nostro divano rosso, mamma preferì non
svegliarlo. In mattinata lo accompagnai al Parco, disponemmo dei
cartelli che segnalavano lavori in corso all’entrata e lungo i viali.
"Quanto è sbadata la gente, sono davvero tante, forse più di quante me
ne abbiano richieste", commentò Babbo Natale. Aveva con sé le chiavi e
riuscì ad aprire i lucchetti liberando tutte le biciclette. Il Comune
mise a nostra disposizione due tendoni: uno serviva da laboratorio di
restauro e l’altro per riparare dalla pioggia le biciclette pronte.
Attaccammo delle locandine in cui spiegammo che volevamo evitare che il
Parco diventasse una discarica ed esaudire il desiderio di bambini e
ragazzi di avere una bicicletta. Chiamammo l’operazione “Mille
biciclette e un Parco per Natale”: chiedevamo la collaborazione di tutti
al restauro delle biciclette e alla pulizia del Parco. Accorsero in
molti all’invito e ognuno diede il proprio contributo. Per alcune
occorreva raddrizzare i raggi delle ruote, sostituire la forcella o la
sella; per altre bisognava cambiare i freni, i pedali o le ruote. Tutte
avevano bisogno di essere pulite, dell'antiruggine, e di una
riverniciata al telaio. Cominciò la scuola perciò la mattina ero
impegnato, ma nel pomeriggio andavo a trovare Babbo Natale. Gli portavo
qualche fetta di torta e un thèrmos di tè caldo che mamma preparava per
lui. A volte lo aiutavo nel lavoro di restauro.
Mancavano poci giorni alla viglia di Natale, le biciclette erano ormai
tutte restaurate a regola d’arte e una sera, Babbo Natale rientrò per
la cena, ma aveva un aspetto pallido e affaticato. Disse di non
sentirsi molto bene, si sdraiò sul divano, la mamma gli preparò un latte
caldo e gli diede il termometro, aveva la febbre alta, perciò chiamammo
il medico. Dopo averlo visitato gli ordinò riposo assoluto, e si
raccomandò che non uscisse per nessun motivo. Le consegne dei doni
rischiavano di saltare. Doveva trovare qualcuno che lo sostituisse,
contattò i suoi assistenti ma erano tutti molto indaffarati per i
preparativi della vigilia.
Il giorno seguente era a letto ancora con la febbre, arrivò il nostro
postino a consegnarci delle lettere.
"Come ho fatto a non pensarci prima, con qualche accorgimento sarà
perfetto, oltretutto se la caverà benissimo perchè è il suo lavoro di
ogni giorno". Chiamò al telefono il suo amico postino:"Come saprai, ho
la febbre e mi è perciò impossibile occuparmi delle consegne natalizie
di quest'anno. Ho pensato a te per sostituirmi". "A me? Se non ti
assomiglio per niente, se ne accorgeranno della sostituzione". "Non ti
preoccupare. Non c'è persona più adatta di te per recapitare i doni,
oltre a me naturalmente". Il postino viveva da solo, gli sembrava un
ottima idea trascorrere il Natale fuori casa, non riusciva però a
immaginarsi nelle vesti di Babbo Natale, poichè era più magro e non
aveva la barba, comunque accettò.
Babbo Natale gli disse di farsi dare dai suoi assistenti la cartina con
le strade da percorrere, e di aver già dato disposizione perché gli
preparassero la slitta con le renne e il suo abito natalizio, infine gli
indicò la strada del Parco per caricare le biciclette. Giunse la
vigilia di Natale, tutto era pronto: il sostituto di Babbo Natale, i
doni caricati sulla slitta, una nevicata avvolse il mondo in una
soffice, candida coperta di cristalli di neve, ma qualcosa non
funzionava. Le renne si rifiutavano di muoversi, perchè non ubbidivano
mai agli estranei. Allora Babbo Natale emise il suono di richiamo delle
renne che appena lo riconobbero, partirono lasciandosi guidare
dall’amico postino. La notte sotto l’albero trovai una splendida
bicicletta rossa e un biglietto: "Come promesso questa è la mia prima
consegna. Il tuo amico, Babbo Natale". Tutto andò come doveva andare: il
Parco fu riconsegnato alla città, le biciclette caricate sulla slitta e
regalate, i bambini ricevettero i doni e poichè avevano saputo che Babbo
Natale era malato, ognuno di loro gli preparò un bigliettino di auguri a
forma di farfalla. Qualche giorno dopo il postino tornò a prendere Babbo
Natale non più febbricitante, con la slitta carica di farfalle
variopinte. Vedendo tutte quelle farfalle si commosse per il pensiero
delicato che i bambini avevano avuto per lui. Avevo una bicicletta rossa
davvero speciale, pedalavo spesso nel Parco che era tornato al suo
splendore e nessuno più vi dimenticava le biciclette. Ah!, dimenticavo.
Due settimane dopo quel Natale, trovai sotto la porta una lettera: "Caro
Fausto, nel cassetto del mobile vicino alla finestra in cucina,
dovrebbe esserci l’album della lepre variabile che ho scordato di
prendere. Gli assistenti fotografi sono furiosi con me per aver
lasciato in giro il loro servizio fotografico. Nel cassetto ho
dimenticato anche le chiavi di casa, ora sono ospite dal mio amico
postino. Appena ti è possibile, metti tutto in una busta e inviala a
mezzo corriere all’Ufficio Postale. Ti abbraccio, Babbo Natale". |
Erano le 8.30 di una sera
buia come il fondo di una cantina e così fredda che perfino il cielo
aveva indossato un coperta pesante.
“Presto, forza, è ora, dobbiamo partire” si sentì a un tratto nel
silenzio del sotterraneo. L’ordine corse di bocca in bocca all’interno
delle lunghe gallerie, dove alcuni sbadigliavano, destandosi da un sogno
colmo di succose carote e altri si lisciavano il pelo arruffato dal
sonno; i piccoli, stiracchiandosi, domandavano: “Dove andiamo? Perché
partiamo?”. Gli adulti. però, preoccupati, non trovavano il tempo di
rispondere a quelle domande e si limitavano a sospingere lungo i
cunicoli i piccoli ancora assonnati.
Poco alla volta si riunirono tutti, adulti, anziani e piccoli, nella
Tana Grande, dove Ruggine, Penna e Ciuffo li attendevano. “Non possiamo
sapere quanto durerà la nostra fuga – esordì Ruggine con voce che voleva
sembrare sicura. – Però una cosa è certa: il mondo, fuori da qui, è
denso di pericoli. Quindi, fate attenzione!”.
“Sì, sì, attenzione… attenzione…” fu il mormorio che fece seguito alle
sue parole.
“Andiamo!” proseguì Penna, e si incamminarono. I più anziani, col cuore
pesante, non si voltarono indietro nemmeno una volta; non volevano
vedere ciò che lasciavano: il tepore delle tane, i luoghi conosciuti,
gli odori familiari.
Quando sbucarono all’esterno, il cielo non prometteva nulla di buono:
raffiche rabbiose di vento gettavano qua e là manciate di foglie
scricchiolanti e facevano gemere i cespugli ormai spogli. I piccoli
rabbrividirono nell’aria gelata di quella sera di dicembre e
cominciarono a percorrere ordinatamente, saltellando, il “loro” terreno.
Solo quando furono tutti al bordo del campo coperto di brina, Ruggine si
gettò un’ultima occhiata alle spalle: la Ruspa Ruggente, alta, grossa,
dentata, che li aveva terrorizzati per giorni e giorni distruggendo
gallerie e tane, era là, coperta da un telo blu, in attesa che gli
uomini tornassero a scavare. Non c’era più posto, in quel luogo, per i
96 conigli che vivevano su quel terreno da lunghi, lunghissimi anni; non
c’era più spazio per loro in quella terra, dove, si narrava, in epoche
remote era arrivato Gran Coniglio con un primo, sparuto gruppetto. A
quei tempi – così affermavano le leggende – il campo era ricco di erba,
circondato da orti traboccanti di verdure e alberi carichi di frutti,
mentre un Limpido Fiume scorreva, con le sue placide acque, a poca
distanza.
Ruggine guardò ora il loro podere: enormi palazzi lo soffocavano da ogni
lato e la Terribile Tangenziale, lì accanto, era percorsa giorno e notte
da Moto Tonanti, Camion Puzzolenti e Auto Strepitanti.
L’unica salvezza era la fuga, che avevano progettato ormai da giorni.
Impauriti, ma tranquilli e ordinati, i 96 conigli iniziarono a
percorrere il marciapiede.
Le auto sfrecciavano veloci sulla Terribile Tangenziale, colpendo con i
fari il gruppo di conigli migranti che si spostavano con prudenza. Gli
automobilisti, allarmati, iniziarono a tempestare di telefonate il 113:
“Presto, mandate una pattuglia, ci sono centinaia, migliaia, milioni di
conigli sulla tangenziale… potrebbero causare incidenti…”.
“Allarme! Allarme! – strillarono altri. - Ci sono degli alieni simili a
conigli sulla tangenziale! Ci stanno invadendo!”.
Quando infine i supposti invasori raggiunsero l’incrocio con la strada
provinciale, Ruggine, ritto sulle zampe posteriori, con le orecchie
vigili come antenne, dopo aver annusato ripetutamente l’aria in
direzione dei quattro punti cardinali, decise: “Di là! Andremo a
settentrione!". Saltellando, incespicando, coi piccoli cuori in tumulto,
attraversarono lo svincolo e si trovarono tutti sull’altra strada,
diretti verso il Limpido Fiume. Tutti meno…
“Aiuto! Aspettatemi!”; il grido disperato di Lapi lacerò l’aria umida
della sera. Si volsero tutti come un sol coniglio: quello svampito era
là, fermo in mezzo al crocicchio, e tremava come un budino dimenticato
al sole in un giorno d’estate. “Vado
io!” decise Penna e si tuffò verso l’amico, i cui denti, per il terrore,
battevano come nacchere impazzite; lo afferrò saldamente per una zampa e
se lo trascinò appresso fino a porlo in salvo.
“Gra-gra-gra-grazie” balbettò Lapi, il cui pelo chiaro, di cui
andava fiero, era diventato nero come liquirizia per gli scarichi degli
autocarri. I suoi baffetti argentati vibravano ancora per la paura.
Si rimisero in cammino, senza badare allo stridere dei freni delle auto
che inchiodavano quando vedevano quella lunga fila ordinata sul
marciapiede. A un tratto però, ancora lontano, ma in rapido
avvicinamento, si sentì provenire il sibilo lacerante di una sirena: il
temutissimo Accallappiaconigli era sulle loro tracce!
“Al fiume!” gridò Penna sentendo uno sciabordio di acque e tutti si
precipitarono lungo la sponda del torrente, scivolando sull’erba
scivolosa, per cercare un nascondiglio fra gli arbusti.
“Eccoli! Vanno al fiume… presto!”. “Giù la rete… di qui!” gridavano dal
ponte diverse voci concitate, sciabolando l’aria con le pile.
La piccola tribù, sentendosi minacciata, si infilò in un condotto scuro
e maleodorante e attese. Gli uomini percorsero la sponda in lungo e in
largo, senza trovar traccia dei fuggitivi, tanto che, poco alla volta,
le voci che si incrociavano e i suoni dei passi che frugavano si
affievolirono e infine si allontanarono.
“Ma siamo arrivati al Limpido Fiume?” sussurrò un piccolo.
“Usciamo da qui, c’è una puzza tremenda!” mormorò un altro.
“Sarà colpa di Lapi, dopo lo spavento che si è preso!” ridacchiò
Ruggine.
“Ehi, io non…”esordì Lapi, ma ecco che due occhi verdastri, minacciosi,
si accesero nel buio e una voce sgraziata sibilò: “Che fate,
Lungheorecchie, nel mio territorio?”.
“No-noi – balbettò Ciuffo – siamo in fuga, ce-ce ne andiamo su-subito…”.
“Avete invaso il mio territorio! – squittì la voce. – Questa discarica è
zona mia, capito?”.
“Discarica?! E il Limpido Fiume? E le acque spumeggianti?” chiese un
anziano con voce tremolante.
Topo-di-Fogna si piegò in due per le risate: “Oh, il fiume per
spumeggiare spumeggia, spumeggia: detersivi, scarichi industriali,
residui fognari… ah, ah, ah… Comunque, per passare da qui dovete
pagare!”.
"Pagare?" chiesero a una sola voce Ciuffo, Penna e Lapi.
“Sì, pagare!” ribadì Topo-di-Fogna quando fu certo che anche l’ultimo
uomo se ne fosse andato, e li fece uscire dal condotto puzzolente.
“Fatemi un po’ vedere…” e li scrutò uno ad uno per controllare
cos’avessero di prezioso. “Maledizione, non avete niente di niente,
siete dei luridi pezzenti; vorrà dire che uno di voi resterà qui a farmi
da schiavo…”.
I conigli si guardarono smarriti: no, non era certo quella la loro idea
di libertà! Poi Ciuffo ebbe un’idea: “Aspettate!” esclamò; risalì
velocemente la sponda e saltellò fino al punto in cui ricordava di aver
visto qualcosa di luccicante; prese l’oggetto fra i denti, tornò dai
suoi, depose il pezzo di specchietto davanti al ratto e chiese: “Ora
possiamo ripartire?”.
Al topo brillarono gli occhi: fra le suericchezze – bottiglie di
plastica, lattine schiacciate, tappi colorati – quello non c’era e
sicuramente valeva un tesoro. “Potete andare – disse fingendo
indifferenza – anche se questa è robaccia di nessun pregio…” e allungò
una zampa, viscida e chiazzata di sporcizia, verso lo specchietto
luccicante. Poi, con un mozzicone di sigaretta fra i denti, restò ad
osservare i conigli che si allontanavano sulle pietre lisce del fiume.
Prima di rintanarsi nel suo barile sfondato, gettò un'ultima occhiata a
Penna, che chiudeva la fila, e sputò con disprezzo: “Spiantati! Non
sanno nulla dell’esistenza, avranno vita breve qua fuori…”.
* * *
Camminarono, camminarono e camminarono ancora, sempre più stanchi,
sempre più affamati, finché giunsero nei pressi di una casa. Ruggine si
fermò, si rizzò sulle zampe posteriori, mosse il nasino nell’aria
gelida, poi mormorò: “Fieno e legna… Possiamo provare…”. Cautamente,
insinuandosi uno alla volta sotto la recinzione, strisciando contro il
muro di grossi mattoni, arrivarono a una porticina. Ciuffo, col cuore
che martellava, la sospinse e sbirciò all’interno: buio assoluto.
Attese che gli occhi si abituassero all’oscurità, poi azzardò: “Non c’è
nessuno, per questa notte possiamo rifugiarci qui!”.
I piccoli si addormentarono quasi subito, dopo aver rosicchiato paglia e
fieno, e anche gli adulti, pensando di essere al sicuro per quella
notte, stavano per chiudere gli occhi, quando, dall’alto di una trave,
una voce cavernosa rimbombò nell’aria immobile: “Guarda guarda che bei
bocconi!”. I 96 cuori dei Lungheorecchie ebbero un tuffo e tutti
alzarono lo sguardo verso la voce.
“E così – gracchiò Corvo Spennacchiato volando su una trave proprio
sopra le loro teste – ora potrò avvertire Cane Rognoso e Martora
Malvagia che qui c’è una cena pronta per loro… Sapete, Lungheorecchie,
io non ho più la forza di cacciare, ma indico ai miei alleati le facili
prede come voi, così mi lasciano i loro avanzi! Ah, ah, ah..”.
Il tonfo della porta richiusa li fece sobbalzare: un enorme cane dal
pelo ispido come una spazzola di ferro e una martora dagli occhi avidi
li fissavano con la bava alla bocca.
“Siamo perduti!” mormorò Penna tremando come un pioppo nella bufera,
mentre il cane e la martora avanzavano lentamente pregustando le loro
tenere polpe.
“Presto, di qui!” disse una voce appena udibile. Penna si voltò: un
topino, alto quanto un torsolo di mela, indicava loro uno stretto
pertugio fra le assi: “Presto!”. I conigli, retrocedendo pian piano,
sgusciarono in quel foro provvidenziale, e solo quando Ciuffo restò da
solo a fronteggiare i nemici, questi si resero conto di essere stati
beffati. “Prendiamoli!” esclamarono, ma già Ciuffo, sparito oltre
l'apertura, stava spostando un grosso mattone per tapparla.
“Fuggite verso la collina, presto, verso la collina!” suggerì il topino.
E mentre i predatori cercavano di sfondare le linee difensive, la tribù
dei conigli scappò verso i monti.
* * *
Ormai la città era alle loro spalle e il bosco, avvolto nell’oscurità
della notte, era denso di ignote minacce, popolato forse da carnivori
dai denti aguzzi come pugnali e dagli occhi di fuoco.
Molti erano allo stremo delle forze: scivolavano sulla neve ghiacciata,
inciampavano nelle pietre sconnesse e non trovavano neppure un filo
d'erba da rosicchiare. Perfino nei cuori più coraggiosi si faceva ormai
strada la disperazione. A un tratto, però, Ruggine, che aveva alzato lo
sguardo stanco verso il cielo, da cui cadevano sottili aghi di neve
ghiacciata, mormorò: “Lassù, guardate, una casa!”.
Si scorgeva infatti, a breve distanza, un tetto imbiancato. “Vado in
ispezione!” decise Ruggine, sentendosi rinascere le speranze alla
prospettiva di un posto all’asciutto in cui trascorrere il resto della
notte e forse anche di qualcosa da mettere sotto i denti.
“Vengo con te!” aggiunse Lapi tremando per la propria audacia.
“Dannasssione, ragassssi, vengo anch’io!” proclamò Denterotto col suo
marcato difetto di pronuncia. Saltellarono fino
al portone della cascina e
sbirciarono all’interno. “È disabitata!” esclamò soddisfatto Ruggine, e
già stavano per tornare ad avvisare gli altri quando un’ombra
corpulenta, più nera e densa dell’oscurità che li circondava, li fece
tremare fin nel midollo.
“Un mo-mo-mostro!” balbettò Lapi e Denterotto sibilò: “Per mille
ssssampogne! Ssssiamo fregati!”. Ma, dopo il primo istante di terrore,
Ruggine, il cui formidabile olfatto non lo tradiva mai, annusò l’odore
che la brezza sospingeva verso di lui e balbettò: “Ma-ma que-questo è un
cavallo”, poi guardò meglio l’ombra massiccia e sussurrò: “Anzi, una
cavalla, una grossa cavalla, una pony incinta!”, per cui, dopo essersi
schiarito la voce, azzardò: “Vede si-si-signora Gambacorta, siamo alla
ricerca di una nuova terra in cui vivere in pa-pace. Non le sto ora a
raccontare le traversie, le avversità e i pericoli corsi, e la fatica
dei piccoli e il dolore per la terra abbandonata in tutta fretta… -
sbatté le lunghe orecchie setose e si asciugò una lacrima che gli era
scivolata lungo il muso più per il freddo che per la commozione. - Lei
certo è sen-sensibile e non ci lascerà morire di freddo pro-pro-proprio
stanotte che è la vigilia di Natale, vero?”. Poi sfoderò lo sguardo più
dolce del suo repertorio.
La cavalla li osservò con fare premuroso, fiutò l’aria per cogliere
l’odore degli altri conigli, poi rispose: “Potete restare, certo, anzi,
siete i benvenuti. Ci sono nascondigli ovunque in questa vecchia
cascina… Laggiù, al pozzo rotondo, sotto la tettoia di legno, mi hanno
lasciato una scorta di paglia e fieno per molte settimane, e acqua in
una tinozza, perché qui, se comincerà a nevicare, per giorni e giorni
nessuno potrà salire…”.
Ruggine avrebbe voluto ballare, saltare, cantare, ma si limitò a
strusciare affettuosamente la testa contro la zampa pelosissima della
signora Gambacorta. Il fischio potente di Denterotto richiamò anche gli
altri che aspettavano più in basso e che arrivarono a piccoli gruppi:
chi aveva una zampa ferita e chi la coda ammaccata, chi si lamentava per
la fame e chi per il sonno. Ma, alla vista di quella gran quantità di
paglia, ebbero tutti un sospiro di sollievo: ormai al sicuro, si
gettarono nel morbido tepore e si addormentarono profondamente. La neve,
da sottile e ghiacciata che era, cominciò a cadere larga e pesante, per
tutta la notte e per l’intero giorno seguente, coprendo con un mantello
candido alberi, tetti e prati. E fu proprio il giorno dopo, quando ormai
la sera si era posata sulla montagna come un piumino blu, che nacque il
piccolo pony: aveva grandi occhi nocciola, il pelame dorato come la
madre e una piccola stella candida sul muso. “Fiocco-di-neve… che dice,
signora Gambacorta, potremmo chiamarlo così, il piccolo, eh?” decise
Ruggine, che aveva assistito al parto con la gentilezza di un’ostetrica
provetta.
“Sì, direi che è proprio indicato” sorrise la cavalla, dopo aver gettato
un’occhiata alla neve che continuava a scendere pigra. E fu così
che da quel giorno, e per molti, moltissimi anni, i conigli vissero
finalmente in pace, in compagnia della signora Gambacorta e di
Fiocco-di-Neve, il suo piccolo figlio. |