PREMIO "STORIA DI NATALE" EDIZIONE 2014


La giuria del premio “Storia di Natale”, il premio promosso da Interlinea edizioni e dal Comune di Ghemme, con vari patrocini e collaborazioni, ha diffuso in questi giorni le proprie decisioni: per l’edizione 2014 il primo premio della sezione senza limiti di età è stato assegnato a Piazzetta Natale di Emanuela Bussolati (pubblicato nella collana "Le rane piccole" di Interlinea). La giuria ha segnalato come particolarmente meritevole il testo di Anna Mencarelli (Quando Ercole salvò il Natale) secondo classificato. Per quest'anno non è stato decretato nessun terzo classificato.

 

Testi vincitori della sezione scolastica
babbo natale e l'abete,
classe IV, scuola primaria “E. De Amicis” di Arborio (VC) a pari merito con I TRE PRODIGI della classe II C, scuola primaria di Saliceto Panaro (MO).
Secondo classificato: PALLINE MAGICHE SOTTO LA CUPOLA, classi V A e V B, scuola primaria "Ferrandi" di Novara.
Terzo classificato: MAGIA DI NATALE, classe II, scuola primaria "Antonelli" di Ghemme (NO)
Inoltre, menzioni speciali per: NORDINO E CO., classe V, scuola primaria di Prato Sesia e IL NATALE DI FRANCESCO, classe III, scuola primaria "Don Luigi Rossi", Fai della Paganella (TN).

 

I testi vincitori della sezione scolastica sono contenuti in un libretto distribuito gratuitamente durante la cerimonia e scaricabile qui.
 

secondo classificato
quando ercole salvò il natale

di Anna Mencarelli

C’era una volta il tiramantice, no, c’era una volta Ercole  il ciclista.

Ercole era un ometto piccolo, tarchiato e con la camicia che gli scoppiava nel petto muscoloso.   . La moglie aveva sempre pronto ago e filo per cucire e ricucire i bottoni che saltavano via dalle asole della camicia, una lotta impari e inutile perché, regolarmente, a sera, ne mancava sempre uno al punto che l’abbottonatura, ora, era formata da una vivace e variopinta collezione.

Ercole abitava in un paese di montagna con un piccolo centro dove c’era una vecchia torre, un’osteria, la panetteria e un negozio dove potevi trovare di tutto, dal salame al lucido da scarpe.

Naturalmente c’era anche la chiesa con un contorno di ufficio postale, telefono pubblico, telegrafo, asilo infantile e casa parrocchiale. Dietro la chiesa, poco lontano dalla piazza anche un modesto ospedale.

L’ampia scalinata che scendeva davanti al portico inciampava contro una barriera di case con ai lati uno sfogo verso la piazza del mercato.

Attraversando il rio si raggiungeva il lavatoio dove le donne lavavano panni e chiacchiere.

I bambini andando alla scuola passavano davanti ad un albergo che rendeva importante un paese che non voleva farsi mancare nulla.

Un mucchietto di centro da girare in cinque minuti.

Intorno si sparpagliavano le frazioni, tante, alcune lontane anche ore di cammino, stese sui declivi o aggrappate al pendio della montagna e, con loro, il paese si faceva grande.

 

Ercole abitava in una stradina che correva in mezzo ad una fila di case proprio lì appena sotto la chiesa. Lavorava in uno scantinato da cui si accedeva scendendo per tre gradini sotto il livello della strada. Riparava le biciclette e, per il paese, era “il ciclista”. Amava la musica e lavorava e cantava ininterrottamente intercalando i canti popolari con filastrocche, tantum ergo e canti d’osteria.

Dopo aver rappezzato una camera d’aria bucata, montata la ruota alla bicicletta la faceva girare vorticosamente azionando i pedali per controllarne la centratura.

Oltre alle cantate, Ercole, come tutti i bravi montanari, sapeva anche fischiare imitando a dovere il canto degli uccellini, infatti, sovente, passando davanti alla sua cantina si potevano sentire melodiosi concerti di cinciallegre, fringuelli e passeri. Ma il nostro artista sapeva imitare alla perfezione anche il fruscio delle ruote di bicicletta girate vorticosamente al punto che il rumore ne veniva così amplificato da sembrare un’orchestra di biciclette.

Nelle calde giornate della bella stagione, Ercole lavorava fuori sulla strada. I compaesani, passandogli accanto “Canta, Ercole” gli dicevano “Canta, diventerai maestro di musica! Gira le ruote, Ercole, diventerai quello che fa suonare le biciclette!” ed Ercole continuava a cantare e a fischiare.

 

Un giorno, in paese, arrivò il Maestro di musica.

La diversità di estrazione sociale e di cultura lo fecero apparire da subito come persona rispettabile. Con la lunga barba che gli incorniciava il viso dandogli un inconfondibile aspetto da artista suscitava, negli abitanti del borgo, un po’ di soggezione. Ma, quando, da solo o con la famiglia, passeggiava per le strade del paese, il saluto era rivolto a tutti indistintamente.

A lui era affidato il compito di suonare l’organo della chiesa durante le funzioni religiose.

Per recarsi in chiesa passava davanti alla cantina di Ercole e prese l’abitudine di sostare lì fuori,  seduto sul muretto accanto alla bottega.

Appariva indifferente ai gorgheggi di Ercole che non si faceva scrupoli e continuava imperterrito a cantare, fischiare e girare ruote e pedali.

A qualcuno non era sfuggito l’atteggiamento del maestro che dava idea di condividere quel semplice modo di interpretare la musica e partecipava alle esibizioni canore di Ercole con impercettibili movimenti di solfeggio.

 

 Intanto il tempo passava.

Pioveva come se non avesse mai piovuto e, il giorno in cui la pioggia aveva riempito le grondaie, gli scoli delle strade e inzuppato campi e prati, il maestro passò, come d’abitudine, davanti alla bottega di Ercole. Ercole non cantava.

La luce della cantina si oscurò mentre la sagoma del maestro riempiva la porta annegando nella penombra dell’ambiente. L’ombrello ancora aperto gli sgocciolava sulla schiena la pioggia che aveva raccolto lungo il cammino.

“Ercole” disse il maestro “oggi ho bisogno di voi!”

Lo stupore del ciclista riempì di sconcerto la cantina. Cosa poteva volere il maestro da un semplice riparatore di biciclette?

“Vengo subito” Ercole si buttò sulle spalle una cerata e, senza neppure chiudere la porta, si avviò sulla strada alle calcagna del musicista. Raggiunsero la chiesa, il maestro imboccò la scala dell’organo, cavò di tasca una chiave, la infilò nella toppa, aprì il cancelletto e si inoltrò nella cantoria. Ercole, titubante, si era fermato in fondo alla scala a chiocciola, per lui  quel luogo era sempre stato un posto riservato soltanto ai privilegiati. Il maestro si affacciò dal pianerottolo

“Venga su, Ercole, ho bisogno di lei quassù”.

Saggiava con cura ogni gradino, l’ometto, arrancando timoroso lungo la scala.

Giuntovi in cima avanzò con riverente timore all’interno. Davanti a lui, che la chiesa l’aveva sempre vista soltanto dalla parte dei fedeli, si apriva un mondo sconosciuto e ne ebbe soggezione. Lo sviluppo delle navate, viste dall’alto,acquistavano un’ampia solennità e l’organo, con le tastiere, i registri, le alte e numerose canne e lo spazio per i cantori, occupava tutto lo spazio sopra l’entrata.

“Questa manovella” lo distrasse il maestro indicandogli quella che sporgeva dalla parete di legno in fondo alla cantoria “serve ad alimentare il soffietto che permette all’organo di suonare” continuò  il musicista.

La perplessità di Ercole si rivolse con uno sguardo interrogativo all’attrezzo. Cosa centrava lui con quella manovella?

“Ho bisogno di una persona forte e metodica per girare la manovella. Osservando attentamente il suo modo regolare e continuo nel far girare le ruote delle biciclette mi sembra che proprio lei sia la persona più adatta per questo compito. Se accetta  questo impegno la assumo come tiramantice  e le assicuro un compenso regolare a patto che lei mi assicuri la sua disponibilità in qualsiasi momento ci debba essere la necessità di far suonare l’ organo”.

Il maestro non stette ad attendere una risposta immediata ma, come era sua consuetudine quando saliva sull’ organo, accese la luce a fianco delle tastiere, collocò sul leggio lo spartito e si preparò a suonare. Naturalmente, senza aria nel soffietto, l’organo non emetteva suoni, ma lui appoggiava le mani sulla tastiera e faceva esercizio così col solo tocco dei tasti. Ercole intanto osservava quelle mani agili che volavano lungo la tastiera muta e i piedi che saltellavano qua e là sui pedali .Rimase ad osservarlo e, mentre il suo cervello, pensieri su pensieri, elaborava la manualità e la tecnica che usava nel suo modesto lavoro, agganciava le sue esperienze alla meccanica dello strumento, infine si avviò verso la manovella, strinse le mani attorno al manico, ne saggiò la presa e, senza indugi , cominciò a pedalare, prima lentamente e poi, quando sentì che il polmone aveva incamerato aria, continuò con metodica regolarità a girare la manovella.

Il maestro, osservando tutto con la coda dell’ occhio e, senza darlo a vedere, aveva continuato i suoi esercizi. Intanto, dalle canne, prima debole e, di mano in mano in un crescendo, ne uscì un suono che cominciò a riempire la chiesa fino a quando le navate ne furono colme fino all’orlo. Il maestro continuò aumentando il numero dei registri e, l’organo, suonò il suo pezzo più solenne con un inno di gioia. Non c’era mai stato un concerto più bello con solo Dio come pubblico.

Non ci furono applausi e non fu necessaria nessuna firma per suggellare il contratto fra organista e tiramantice, soltanto una forte e decisa stretta di mano. Da quel giorno, Ercole, ebbe ufficialmente, come secondo lavoro, la mansione di tiramantice.

Alla domenica e nelle feste comandate arrivava in chiesa in anticipo sull’orario delle funzioni.

Aggrediva la scala a chiocciola nella corporatura robusta e si aveva l’ impressione di trovarlo incastrato nel giro del corrimano, ma poi lo si scopriva in cima accanto alla manovella.

Grande quasi quanto lui, cominciava a girarla lentamente per dar modo al mantice di succhiare aria, poi aumentava il ritmo fino a quanto il soffietto potesse contenerne, quindi riprendeva con un movimento lento e continuo permettendo al polmone di mantenersi gonfio. All’arrivo dell’organista tutto era pronto per diffondere nelle navate il suono di quel solenne strumento.

Ercole ci metteva tutta l’anima. Maestro, organo e tiramantice formavano un trio ben affiatato.

Musicista e ciclista viaggiavano ormai in coppia. Il maestro e la sua ombra. Per Ercole, l’organo, era diventato l’altra bicicletta con la quale poteva viaggiare nel mondo dei suoni. Ora, quel maestro,gli aveva dato modo di entrarvi respirandone la bellezza. Quelle ore passate ascoltando l’organo erano per lui momenti di grande emozione e girando la manovella si sentiva parte dello strumento.

 

Poi venne il momento in cui qualcosa cambiò.

In paese avevano potenziato la luce elettrica. Le strade vennero illuminate, nelle case si accesero più luci e qualcosa cambiò anche in chiesa. Oltre le quattro lampadine a braccio lungo la navata centrale, davanti all’ altare pendevano ora anche due grandi lampadari di cristallo con le lampadine a forma di candela. Con la nuova illuminazione anche le navate laterali persero quasi tutte le ombre e sull’organo i cantori non ebbero più bisogno di indovinare le note nella penombra del Cantuarium.

Infine ci fu la possibilità di far funzionare elettricamente anche il meccanismo dell’organo. Bastava un clic d’interruttore e il mantice cominciava ad assorbire l’aria respirando come una locomotiva e, nel tempo di accendere un cero, era già pronto per far suonare l’organo.

Non più sudori, non più braccia muscolose, tutto svanito come il profumo dell’incenso. Si stava esaurendo un vecchio mestiere: il tiramantice. La manovella se ne poteva stare lì immobile e inoperosa.

Ma lui, Ercole, non era sparito. Ritornava puntualmente ad ogni funzione come aveva sempre fatto.

Continuò a salire sulla scala a chiocciola, si sedeva là in fondo, accanto alla manovella e, a volte, sentiva ancora su di sé lo sguardo del maestro. Pareva ad entrambi troppo difficile dimenticare quell’ affiatamento coltivato nel tempo. Finita la funzione, il maestro ritirava diligentemente gli spartiti nella borsa di pelle marrone, staccava l’interruttore e il mantice, emettendo un lungo respiro si afflosciava nel riposo. Con uno sguardo e una stirata alla lunga barba, l’organista dava un arrivederci al tiramantice ed Ercole sapeva che sarebbe potuto tornare ancora.

 

Venne l’inverno, tornò dicembre con le sue nevicate e i suoi geli. Dove ora c’erano le lampadine la neve era più bianca.

 

E venne anche il Natale e la messa di mezzanotte.

Il sagrestano passò ad accendere le candele sugli altari e le lampadine sulle colonne. L’organo respirava già col mantice gonfiato dal motore elettrico, i cantori pescavano sul libro i canti per la messa, l’organista saggiava qualche tasto qua e là come ad assicurarsi che funzionassero.

Sotto, il brulichio dei fedeli riempiva la chiesa, anche Ercole era là al suo solito posto, curiosamente osservato e benevolmente canzonato, rannicchiato nell’angolo più buio dell’organo accanto alla manovella dismessa.

E la messa inizia.

Con l’intonazione dell’organo il prete canta solennemente il Gloria in Excelsis Deo e nell’Et in Terra Pax Ominibus tutte le canne dell’organo si aprono, si spalancano le bocche dei cantori e dai due enormi lampadari uno sfarzo di luci inonda tutta la fede del popolo per la Nascita di Gesù.

 

Un attimo solo per rendersi conto che la potenza del contatore non è sufficiente a sopportare tutta quella richiesta di corrente e, all’improvviso, la chiesa piomba nella penombra delle sole candele. L’organo accenna a perdere respiro ma, prima che il soffietto perda il suo volume, ecco intervenire tempestivo il nostro tiramantice. Come il soldato di trincea che parte scattando all’assalto del nemico, Ercole afferra prontamente la sua manovella e impedisce allo strumento di perdere fiato.

Ci volle un Bonae Voluntatis prima del ritorno della luce elettrica ma, Ercole il Tiramantice, ha salvato il Natale. Ora sa che avranno ancora bisogno di lui.